Hyso Telaraj, il fuoco della giustizia
di Alessia del Gruppo Giovani Libera Chieti
Molti pensano che la strada per una vita felice e senza problemi sia quella di subire a testa bassa, quella di vivere nell’indifferenza e quindi nell’omertà, senza denunciare le ingiustizie. “Così sei al sicuro”, “così è più facile”, si convincono.
E invece io non la pensavo così, non ero così, affatto. Ero e sono il tipo di persona che si nasce per vivere, non per sopravvivere. E quindi io non sono nato per passare una vita intera a lavorare in condizioni disumane; quando scappai dalle continue guerre civili che infliggevano il mio paese, l’Albania, pensavo di trovare in Italia un posto al sicuro, un po’ come il sogno dell’America, ma ciò che trovai fu molto diverso da quello che mi aspettavo, era come assistere a una guerra assai più spietata che vedeva lo sfruttamento della manodopera straniera, femminile e minorile e che si approfittava della debolezza di questi dovuta alla mancanza di soldi che dovevano provvedere al sostentamento della famiglia, non importava come. E invece no, importa eccome.
Cercavo aiuto per mio padre, cercavo opportunità, ma ciò che trovai mi deluse.
Io sono Hyso, Hyso Telaraj e probabilmente non avete mai sentito il mio nome come non ne avete sentiti molti altri perché celati, perché soffocati dall’indifferenza della comunità ma questo non deve fermarvi, anzi, deve spronarvi. Perché la speranza, ricordate, non deve mai morire, deve accendersi in voi il piccolo fuoco che è all’interno di ognuno ma che solo chi è abbastanza intelligente e coraggioso è in grado di mantenere acceso, nonostante tutto, e di farlo crescere. E’ il fuoco della giustizia.
Piano piano mi resi conto che non ero io perché io lavoravo, io ero bravo, io sarei stato disposto a fare tanto purché avessimo paga e vita dignitose. Eravamo in tanti, tanti sogni. Lavoravamo in campi agricoli di aziende, aziende che tramite un ‘signore’ chiamato caporale reclutava lavoratori, i soldi che arrivavano a noi però non si avvicinavano neanche ai soldi che passavano in mano ai caporali e che avrebbero dovuto distribuire a noi lavoratori che ci ammazzavamo ogni fottuto giorno. Ma come facevamo ad andare avanti? Con 15 euro al giorno, da prima dell’alba al tramonto, senza cibo, senza acqua. Immaginate ora, 8 Settembre 1999, un giorno che avrebbe segnato la mia vita a soli 22 anni. Il caporale che passa a chiedere una tangente, parte del nostro guadagno, quel poco che ci eravamo sudati e che ora dovevamo consegnare all’uomo che ci trattava come fossimo solo carne in movimento buona solo a raccogliere. Ed ora guardate come tutti, senza alzare la testa, prendono i soldi dalle loro tasche bucate e li versano. Ora lui si avvicina a un lavoratore, sono io, che alzo la testa e mi rifiuto e poi uno schiaffo, mi rifiuto ancora e poi un altro schiaffo ma non cedo e non ho ceduto. Chissà cosa mi passava per la testa, credevo che anche gli altri avrebbero fatto lo stesso e invece quando mi girai fiero e orgoglioso di me stesso anche se esausto mi guardai attorno, tutti continuavano a lavorare a testa bassa, tutti sapevano ma nessuno parlava. Così ho capito che non l’avrei passata liscia ma se forse non fossi stato così solo, se solo qualcuno mi avesse aiutato io ora sarei qui tra voi, non solo con l’anima ma anche con il corpo.
Quella notte degli uomini arrivarono da me, ora non ricordo bene perché fu tutto così doloroso, confuso, netto, freddo e spietato.
Quella notte però mi hanno ucciso ed erano stati pagati per farlo, la mia vita valeva così poco per loro, i mafiosi.
Quando si fanno soldi sfruttando le debolezze altrui ci si pensa grandi … eppure si è così piccoli.