Il mio ricordo di Beppe Montana
di Giuseppe Vinci
Ho conosciuto Beppe all’inizio degli anni ’80, quando iniziò la mia amicizia con suo fratello Dario tra i banchi del ginnasio. Lui stava finendo la scuola superiore di Polizia per diventare commissario e da lì a poco ricevette l’incarico di andare alla Squadra Mobile di Palermo, esattamente nel settembre del 1982, dopo l’omicidio del Prefetto Dalla Chiesa. In realtà avevo occasione di incontrarlo solo quelle rare volte che veniva a casa a trovare i suoi e per caso mi trovavo lì con Dario, che spesso ci parlava di lui. Qualche volta in più l’ho visto qualche anno dopo quando fu costretto a restare a casa in convalescenza a seguito di un incidente in auto. Era il tempo in cui si istruiva il maxiprocesso e il suo lavoro investigativo con la Squadra Catturandi che dirigeva era molto prezioso per i magistrati.
Beppe per noi ragazzi, all’epoca liceali presi dalle nostre “lotte politiche”, rappresentava lo sbirro, e verso di lui nutrivamo un sentimento misto tra opposizione per il suo ruolo istituzionale ma allo stesso tempo di ammirazione, perché era il fratello grande, quello che viveva la vita, conosceva i posti dove si mangiava bene e aveva una bellissima fidanzata. Noi non capivamo bene l’importanza del lavoro di Beppe a quell’epoca, quando si parlava molto poco o per nulla di mafia, anche se la nuova strategia dei corleonesi aveva già iniziato a spargere sangue innocente.
L’estate del 1985 chi può dimenticarla! La mattina del 29 luglio ci arrivò una telefonata da un amico che doveva partire quella stessa notte con Dario: la sera prima avevano assassinato Beppe a Porticello, vicino Palermo, nel porto dove teneva il suo motoscafo. Era il giorno stesso in cui era andato in ferie ed era appena rientrato da una gita in mare con la sua fidanzata ed alcuni amici. Lo hanno colpito disarmato. Dario e i suoi genitori furono portati a Palermo dalla Polizia, dove già si trovava Gigi, il fratello mediano, in vacanza con Beppe. Noi, gli amici più intimi di Dario, ci organizzammo per andare il giorno dopo a Palermo. Ricordo che entrati in città incontrammo una volante, chiedemmo informazioni e i poliziotti, ritenendoci dei parenti, senza perdere tempo ci scortarono a sirene spiegate fino alla sede della Squadra Mobile, dove c’era la camera ardente. Arrivammo in tempo per partecipare al corteo funebre. Dopo il funerale, accompagnammo la salma di Beppe al cimitero di Catania. Con noi anche il Vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, che fino a pochi mesi prima aveva lavorato nella Squadra Catturandi di Beppe, diventando oltre che un abile investigatore suo intimo amico. Roberto era da poco rientrato nella sua Roma, ma avendo appreso dell’omicidio di Beppe volle tornare a Palermo e da allora non lasciò un attimo solo l’altro suo superiore ed amico Ninni, prestandosi come volontario per fargli la scorta. E così si beccò insieme a lui una scarica letale di kalashnikov mentre lo accompagnava a casa il 6 agosto 1985. Appena una settimana prima lo avevo sentito promettere davanti alla tomba di Beppe che avrebbe preso “quei bastardi”, gli assassini del suo grande amico.
Fu un’altra corsa a Palermo per fare compagnia a Dario e ai suoi. La Squadra Mobile sembrava un formicaio impazzito. Altri funerali e la rabbia dei poliziotti urlata contro i politici presenti per i pochi mezzi messi a loro disposizione per lottare il grande mostro della mafia e per la paura degli infiltrati.
Superfluo ricordare in queste righe chi era Beppe, le sue indagini, quanti latitanti avesse arrestato. Questa è cronaca, oggi potremmo anche definirla storia, visto il grosso contributo dato per il maxiprocesso. Preferisco ricordare piuttosto il suo metodo investigativo: sembrerà assurdo dirlo oggi, ma Beppe i latitanti li cercava a Palermo, o al massimo nelle campagne attorno la città. Si, sembra folle dirlo, ma tanti suoi colleghi pensavano fossero chissà in quali luoghi lontani, e così le indagini venivano depistate. Beppe invece li cercava lì, perché era convinto che i capi mafia non dovevano perdere il contatto con il loro territorio di dominio. Per cercarli utilizzava i mezzi messi a disposizione dai suoi amici, una macchina prestata, un motorino, il suo motoscafo per osservare la costa dal mare con un binocolo anche quello preso in prestito. E la storia gli ha dato ragione.
Un’altra cosa da ricordare è che insieme al giudice Chinnici appena potevano si ritagliavano uno spazio nel loro prezioso tempo per andare a parlare con i ragazzi delle scuole, per sancire un patto di complicità nella lotta alla mafia con la società pulita. Avevano fondato il Comitato Lillo Zucchetto, nel nome di un altro grande investigatore della squadra di Beppe assassinato nel novembre del 1982. Beppe ai ragazzi diceva “i nostri successi non sono solo il frutto di investigazioni ma anche del progresso culturale”, frase che rappresenta l’eredità che ci ha lasciato.
Chi era Beppe Montana negli anni ’80 effettivamente l’ho descritto poco, ma chi vuol saperne di più sulle sue indagini o della sua biografia non avrà difficoltà ad avere notizie. Ma chi è oggi Beppe? Beppe è rimasto nei nostri ricordi come un trentatreenne pieno di energia e di voglia di vivere. Oggi avrebbe avuto sessantasei anni, ma è rimasto nel nostro immaginario con quel sorriso sornione appena accennato in volto e la sigaretta sempre accesa. Lì si è fermata la sua vita, a Porticello in quella maledetta estate dell’85. E lì sarebbe rimasta, per finire nel dimenticatoio. Ma Beppe si è subito rifatto vivo nell’impegno per la ricerca di verità e giustizia che prima di tutti ha messo in campo suo padre Luigi, uomo di acuta intelligenza che con grande pazienza non ha mai smesso di cercare informazioni, ritagliando articoli di giornale e ricercando nella sua memoria frammenti dei racconti che Beppe gli confidava sul suo lavoro e sulle sensazioni che aveva degli uomini che si aggiravano negli uffici della polizia. Mentre sua madre Maria, dopo l’omicidio, non aveva più la voglia di cantare, come era solita fare mentre si dedicava alle faccende domestiche. E quando anche suo padre è stato chiamato ad altra vita, il testimone è passato a Dario e a Gigi. Solo allora abbiamo veramente capito cosa significava la vita di Beppe, di Ninni, di Roberto e di tutti gli altri che come loro sono caduti per mano mafiosa. E non solo quelli che hanno direttamente lottato contro la mafia, ma tutte le vittime innocenti delle mafie, indistintamente, perché la memoria è collettiva.
Così la vita di Beppe è diventata il nostro impegno con Libera e si è trasformata in una cooperativa che gestisce un terreno confiscato, in un albero di ulivo piantato da don Ciotti, in un auditorium di una scuola, in una piazza di un quartiere popolare dove i bambini possono giocare e da dove è partito un progetto di ricostruzione del quartiere e soprattutto di relazioni umane, è la sede di Libera a Catania.
Beppe oggi è sempre insieme a noi, ci guarda con il suo sorriso sornione fumando l’ennesima sigaretta, mentre facciamo i percorsi di formazione con i ragazzi delle scuole e con quelli dell’area penale, e mentre marciamo il 21 marzo ricordandolo con tutte le altre vittime innocenti delle mafie.
E’ la memoria che si trasforma in impegno!
Non e’ facile ripensare al 28 luglio, quel giorno anche io ero con Beppe. Avevamo trascorso una serena domenica al mare, in motoscafo nel tratto di mare davanti la sua casa ad Aspra e a fine giornata doveva riposare il motoscafo a Porticello.
Il motoscafo faceva qualche capriccio e chiese a me e a un altro nostro amico se avevamo voglia di fargli compagnia. Si offrì il nostro amico di accompagnarlo e io rimasi ad Aspra. Dopo un tempo che non so quantificare, venne una macchina della polizia e mi portò a Porticello da Beppe. Non ho ricordi dell’arrivo a Porticello, qualche flash. Forse è la mia mente che si difende.
Il tempo si dice che aiuta a dimenticare. Non è vero. Il ricordo di Beppe è costantemente con me, c’è il dolore per la mancanza, ma il ricordo non è triste.
E’ il ricordo di un uomo che ha sempre fatto quello che desiderava, era sempre dentro le scelte che faceva e non potevano essere diverse.
Le mie figlie non lo hanno visto lo zio Beppe, ma lo conoscono e lui continua a far parte della nostra famiglia.
Beppe, Ninni, Roberto, Calogero, Natale, tutti poliziotti della mobile di Palermo uccisi in un breve periodo, i giornalisti (Francese, De Mauro), Paolo Giaccone, i magistrati e tanti altri. Tutto questo non è normale in un Paese che si dichiara civile.
Il dolore sarà lenito quando la società siciliana sentirà che questi morti gli appartengono e riuscirà a fare scelte coerenti non considerandoli eroi lontani.
Per adesso il dolore è lenito dalle facce pulite dei ragazzi che ascoltano con attenzione le nostre testimonianze e chiedono con generosità cosa posso fare io, e da chi non parla ma ti guarda con affetto.
Chissà quanti di loro continueranno a farsi questa domanda e manterranno nella loro vita quello sguardo.