La depressione avrebbe dovuto spiegare quel gesto estremo. Null’altro. Nessuna traccia, nessun biglietto, nessuna ulteriore spiegazione. Una storia sepolta per volontà della stessa famiglia di suo marito, che a chi provava ad approfondire consigliava di lasciar perdere, per la tranquillità dei suoi figli. Ci sono voluti 18 anni perché sulla storia di Angela si scoprisse la verità. Ed è stata la verità più atroce che si potesse immaginare.
Angela Costantino aveva bruciato le tappe. Si era sposata giovanissima, ad appena 16 anni. Quando di anni ne aveva compiuti 25, aveva già messo al mondo quattro figli. A vederla nell’unica foto che ne rimane, sembra davvero una ragazzina questa donna. Lunghi capelli scuri, due occhi grandi e lineamenti delicati. Un sorriso appena accennato e forse, dietro quegli occhi grandi, un velo di tristezza per una vita che non era stata esattamente quella che aveva sognato quando si era innamorata di Pietro. A lui si era concessa ancora ragazzina e probabilmente non avrebbe mai immaginato che, solo pochi anni dopo e ancora così piccola, sarebbe diventata una vedova bianca di ‘ndrangheta. Bianca, sì, perché suo marito era vivo, ma rinchiuso dietro le sbarre del carcere di Palmi, dove doveva scontare molti anni. Perché Pietro non era uno qualunque e la sua storia era nel suo stesso cognome: Lo Giudice. Tredici fratelli, figli del capobastone Giuseppe Lo Giudice, freddato in un agguato il 14 giugno 1990 ad Acilia, in provincia di Roma, dove abitava in regime di soggiorno obbligato. La ‘ndrina dei Lo Giudice dominava il rione Santa Caterina di Reggio Calabria e negli anni era stata tra le principiali protagoniste della sanguinosa seconda guerra di ‘ndrangheta scoppiata tra il 1985 e il 1991. Una di quelle famiglie in cui la cultura arcaica della mafia calabrese, basata su un perverso senso dell’onore, non ammette deroghe. Ed è proprio questa cultura arcaica e malata la chiave di volta per comprendere la tragica storia di questa giovane donna, che ne rimase totalmente e brutalmente schiacciata.
La solitudine
L’assenza prolungata del marito, un clima familiare ostile, la sua giovane età dovettero essere più forti della paura. In fondo, a poco più di vent’anni, non deve essere facile resistere alla vita, adattarsi alle brutture di un’esistenza mortificata da un modo di pensare che condanna le donne di mafia alla solitudine, al silenzio, talvolta a diventare invisibili. Con questo tormento nel cuore Angela compie un passo fatale: si innamora di un altro uomo. Comincia a frequentarlo quando ha 24 anni. La famiglia di suo marito lo viene a sapere e per lei comincia un vero e proprio incubo. Pedinamenti, violenze, imposizioni. Viene costretta a trasferirsi in una casetta al pian terreno di via XXV luglio, dove è più facile tenerla sotto controllo. E poi di mezzo c’è una gravidanza intollerabile per i Lo Giudice, che non possono accettare la vergogna di una donna di famiglia che vive una relazione extraconiugale e addirittura rimane incinta. Provano a coprire tutto, costringono Angela ad abortire. Ma non basta. La notizia ormai è di dominio pubblico e a quel punto quella storia non può che avere un esito: la morte. Una morte capace, secondo i Lo Giudice, di lavare l’onta della vergogna e ristabilire l’onore familiare.
Il 16 marzo del 1994
La mattina del 16 marzo 1994 Angela si sveglia all’alba. Ha in programma di fare visita a suo marito in carcere. È il suo ultimo giorno di vita. Da quel momento, di lei non si saprà più nulla per diciotto lunghissimi anni. A casa non c’è, i fornelli accesi e i quattro figli da soli che piangono. Un paio di giorni dopo, la sua Fiat Panda viene ritrovata a Villa San Giovanni. All’interno, in bella mostra, i documenti del servizio di salute mentale, da cui si evince il suo stato depressivo. Sembra che tutto torni: allontanamento volontario, forse addirittura un gesto estremo. Punto. Per i Lo Giudice la storia è chiusa. Una storia che non fa alcun clamore, non trova alcun risalto sui giornali. Niente di niente. Angela, 25 anni, madre di quattro figli, incinta e innamorata di un altro uomo, ha deciso volontariamente di abbandonare tutto, forse preda della depressione.
Vicenda giudiziaria
E sarebbe rimasta questa la verità di questa storia se, a distanza di anni, qualcuno non avesse deciso di parlare, di raccontare la verità vera, quella che i Lo Giudice si erano tenuti dentro per tutto quel tempo. E a parlare sono diversi collaboratori di giustizia, che aiutano gli inquirenti a ricostruire i dettagli drammatici di quella vicenda ormai quasi del tutto dimenticata e che era stata archiviata nel 1998.
A collaborare con la giustizia sono anche due fratelli Lo Giudice, Maurizio e Nino. Grazie anche alle loro dichiarazioni, nell’aprile del 2012, vengono arrestate dodici persone nell’ambito di due distinti operazioni e di un’indagine coordinata dalla Procura antimafia di Reggio Calabria. Tra loro, ci sono anche quelli che i pentiti indicano come i responsabili della tragica fine di Angela. Si tratta di Vincenzo Lo Giudice, uno dei capi della ‘ndrina e zio di Pietro, Bruno Stilo e Fortunato Pennestrì, rispettivamente suo cognato e suo nipote. Un altro collaboratore di giustizia racconta della morte di Angela come frutto di un vero e proprio “accordo di famiglia”. Le indagini ricostruiscono gli ultimi istanti di vita della donna, strangolata in casa da Pennestrì e poi fatta sparire per sempre, su ordine degli altri due.
Il processo porta all’accertamento delle responsabilità dei tre imputati. Nel febbraio del 2015 la Corte d’Assise d’Appello condanna tutti a 30 anni di carcere. Condanna confermata nel giugno dell’anno successivo anche in Corte di Cassazione. Le motivazioni della sentenza di appello sono agghiaccianti:
Vi è stata la maturazione del progetto criminoso, gelosamente custodito per non intaccare la serenità di Pietro Lo Giudice, e l’ideazione dello stato depressivo per gestire sulla misteriosa scomparsa l’ombra del suicidio. A ciò si aggiungeva un ulteriore pericolo: Angela Costantino conosceva partecipi e modus operandi della cosca e, se non tutti, almeno alcuni dei reati fine. Non era tollerabile che ella potesse sfuggire al controllo della famiglia esponendo quest’ultima al rischio della divulgazione dei segreti criminosi custoditi.
Insomma, Angela viene giustiziata per un distorto senso dell’onore e perché non potesse in alcun modo nuocere agli affari di famiglia. Doveva sparire per sempre. E così è stato, perché il suo corpo non è mai stato ritrovato.
Nel 2009, la cognata di Angela, Barbara Corvi, è scomparsa in circostanze molto simili e le indagini sono ancora in corso. Anche Barbara è nell'elenco di Libera, da sempre, il Coordinamento di Libera in Umbria è vicino alla sua famiglia.
Memoria viva
Di Angela e della sua scomparsa se ne è occupata negli anni la trasmissione RAI “Chi l’ha visto?”.