Maria Concetta Cacciola nasce in una famiglia di mafia il 30 settembre del 1980. Suo padre, Michele Cacciola, è il cognato del boss di Rosarno, Gregorio Bellocco. Siamo nel cuore della Piana di Gioia Tauro, terra di Calabria asfissiata dalla presenza criminale. La mamma di Concetta, Anna Rosalba Lazzaro è completamente immersa in quella cultura e così anche suo figlio, il fratello di Maria Concetta, Giuseppe. La ragazza cresce troppo in fretta e a 13 anni si ritrova già sposa di Salvatore Figliuzzi, che nel 2002 sarebbe finito in carcere perché affiliato al clan Bellocco. Insomma, attorno a lei tutto è mafia.
Ben presto, la vita di Maria Concetta comincia a sprofondare verso un inferno di violenza, paura, sopraffazione, crudeltà. Questa ragazza vivace e sveglia si rende conto poco alla volta che quella vita le sta stretta e che, fuori da quelle quattro mura, c’è un mondo che vuole vivere, ci sono sogni che vuole inseguire, c’è la bellezza della libertà. E poi c’è l’amore per i suoi figli, ai quali a tutti i costi vuole regalare un futuro diverso, lontano da quell’ambiente. Il marito è violento con lei, fino al punto di puntarle una pistola alla fronte, al culmine dell’ennesimo violento litigio. Nel 2002 l’uomo finisce in carcere. Maria Concetta si libera di quell’amore sbagliato ma la sua famiglia, suo padre e suo fratello, riescono a fare anche di peggio. La rinchiudono in casa, segregata e isolata, lontano da qualsiasi contatto con il mondo esterno, ancor più perché sopraffatti dal sospetto di una relazione extraconiugale. Una vergogna che il codice della ‘ndrangheta non può tollerare: “questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita”, le urla suo padre. E poi giù botte e violenze. Un incubo senza fine.
Ma Maria Concetta continua a coltivare dentro di sé il sogno di una vita diversa, di un’altra possibilità, per sé e per i suoi figli. E compie la sua scelta.
Avevo problemi di famiglia, non ero capita, gelosia, mio marito… in carcere. Erano arrivate lettere anonime, mi alzavano le mani, ti chiudevano in casa, non potevi uscire, non potevi avere amicizie.
La scelta di collaborare
L’11 maggio del 2011 la donna, all’epoca 31enne, si presenta presso la Tenenza dei Carabinieri di Rosarno, ufficialmente convocata perché suo figlio Alfonso era stato beccato a guidare senza patente. Al cospetto dei militari, Maria Concetta riferisce di essere intenzionata a parlare di sé, della sua famiglia e della sua vita in quella famiglia. Ma non in quel momento: non poteva destare alcun sospetto nei suoi familiari. Se avessero capito che stava fornendo informazioni alle Forze dell’Ordine, l’avrebbero ammazzata. Quel giorno però fu l’inizio di tutto. Torna in caserma il 19 maggio e poi, di nuovo il 23 e il 25, quando ad ascoltarla sono direttamente i magistrati della DDA di Reggio Calabria. Sono dichiarazioni scottanti le sue, e credibili. E dunque gli inquirenti si rendono conto che quella donna va protetta, non può essere lasciata nelle mani della sua famiglia. Così, nella notte tra il 29 e il 30 maggio, Maria Concetta diventa ufficialmente una testimone di giustizia, finisce nel programma di protezione e viene allontanata da Rosarno, dapprima a Cassano allo Ionio e poi lontano, in Liguria, a Genova, interrompendo qualsiasi contatto con la famiglia.
Il programma di protezione
Eppure Maria Concetta, pur determinata ad andare fino in fondo e a liberarsi di quell’incubo, non è felice. E non lo è perché non ha con sé i suoi figli, che non ha potuto portarsi dietro. I figli sono l’unico legame che ancora la tiene legata a Rosarno e alla sua famiglia. Diventano uno strumento di ricatto quando la donna decide di ricontattare i suoi, spinta dal desiderio di sentire i bambini. Piangono, vogliono la madre. Le fanno capire chiaramente che, se non fosse tornata, i suoi figli non li avrebbe più rivisti. Lei non resiste. Il 2 agosto sua madre e suo fratello vanno a prenderla e si rimettono in viaggio per tornare a Rosarno. Maria Concetta è tormentata e alla fine decide di contattare gli uomini del Servizio di Protezione, che la raggiungono e la riportano indietro. Ma la sua famiglia non si arrende e continua a esercitare pressioni insopportabili. Chiedono che ritratti tutto ciò che ha detto. Saranno loro a metterla in contatto con due avvocati e solo dopo potrà rivedere i suoi figli. Loro la perdoneranno. Maria Concetta non ci crede: sa perfettamente che la ‘ndrangheta non perdona. Ma vuole riabbracciare i suoi bambini. E così, nella notte tra l’8 e il 9 agosto, ritorna a Rosarno. Il 12 agosto, accetta di incontrare gli avvocati, firma una ritrattazione e registra un nastro. Sono i suoi ultimi giorni di vita.
Il 20 agosto 2011
Il 20 agosto la donna viene ritrovata in fin di vita. L’acido muriatico ingoiato le aveva bruciato la bocca. Una morte orribile. Un suicidio, per la sua famiglia, che non si ferma neanche dinanzi a tanta barbarie e, tre giorni più tardi, quando ancora i funerali non sono stati celebrati, deposita un esposto in cui la giovane donna è descritta come una depressa, una malata di mente. Per questo si era uccisa in quel modo orribile.
Ma Maria Concetta non era pazza. E, soprattutto, Maria Concetta non si era uccisa. La sua morte, le modalità con cui si era consumata, erano tutt’altro che un suicidio. Semmai, quella povera ragazza, che sognava per sé e i suoi figli un futuro diverso, era stata suicidata. Il suicidio non aveva alcun senso in quella storia. Il suo omicidio sì, così come la scelta dell’acido a bruciarle la bocca, che aveva parlato troppo.
Vicenda giudiziaria
Qualche anno dopo tutti i suoi familiari finiscono arrestati. Vengono arrestati e condannati col rito abbreviato. Finiscono in galera anche Vittorio Pisani, divenuto poi collaboratore di giustizia, e Gregorio Cacciola, i due avvocati che avevano costretto la donna alla ritrattazione.
Se c’è una cosa che sconvolge più di ogni altra in questa storia è la percezione della consapevolezza di Maria Concetta. La donna compie le sue scelte, tutte, perfettamente consapevole di quello che comporteranno. Lo si deduce dalle decine di intercettazioni, verbali, dichiarazioni, scritti che sono finiti nelle mani degli inquirenti. E poi c’è un elemento che accomuna questa storia a quelle di tante altre donne che stanno decidendo di rompere con la cultura mafiosa, soprattutto in Calabria: l’amore per i figli, il desiderio di dare loro un futuro diverso.
Giovanni Musarò è il magistrato che ha sostenuto l’accusa nel Processo Onta, conclusosi con la verità definitiva su questa vicenda drammatica. È stato ascoltato in Commissione parlamentare antimafia: “in una telefonata terrificante con una sua amica - racconta Musarò - Maria Concetta dice: “So che succede. Io torno, mi fanno ritrattare e poi mi ammazzano, ma io ho paura a tornare, però devo farlo per i miei figli”.
Memoria viva
Oggi, alla memoria di Maria Concetta sono dedicate tante iniziativa, che raccontano di un impegno quotidiano per sconfiggere quella cultura di morte e violenza che l’ha uccisa così giovane. Tante iniziative e due presidi di Libera le sono stati dedicati: uno a Nord, il Presidio dell’Alto Mantovano; uno a Sud, il Presidio universitario di Catanzaro. 1000 chilometri di memoria e impegno che attraversano tutto il Paese.