Sulla targa di marmo affissa alla Questura di Palermo per ricordare il “personale della Squadra mobile caduto nell’adempimento del dovere” ci sono scolpiti dieci nomi di poliziotti uccisi da Cosa nostra. Tra questi, c’è quello del vice Brigadiere Filadelfo Aparo, che precede quello del vice Questore Giorgio Boris Giuliano, ucciso poco più di sei mesi dopo, e di cui Aparo era tra i più stretti collaboratori.
Filadelfo era nato il 15 settembre del 1935 a Lentini, una cittadina barocca di antica fondazione greca, situata nella Piana di Catania, alle pendici dei Monti Iblei, a una cinquantina di chilometri dal capoluogo di provincia Siracusa. In questa terra feconda e ricca di agrumeti, Filadelfo aveva trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza, prima di intraprendere la strada che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Appena ventenne, infatti, decise di entrare in Polizia. Siamo nel 1956 e questo ragazzo, con il suo bagaglio di tenacia e passione, comincia il suo servizio al Paese in diverse città: prima Bari, poi Taranto, poi ancora Nettuno. Fino a tornare nella sua amata terra di Sicilia, in quella Palermo dominata dallo strapotere di Cosa nostra, dalla quale non si sarebbe più allontanato. Entra nella Squadra mobile, dapprima nella sezione antirapina e poi, poco più tardi, in quella che sarebbe diventata la sezione Catturandi.
Filadelfo ha delle doti straordinarie e, intorno a lui, se ne accorgono tutti subito. Ha un’eccezionale memoria fotografica, che gli consente di immagazzinare senza difficoltà immagini e volti. In breve, diventa un archivio vivente della Questura palermitana. E poi ha un fiuto investigativo fuori dal comune, che lo rende un vero e proprio segugio. I colleghi lo chiamano “radar”, rivolgendosi a lui per ottenere indicazioni utili alle indagini. Le sue capacità investigative Filadelfo le dimostra sul campo, impegnandosi senza sosta in indagini e operazioni di grande delicatezza, che gli valgono già nel 1969 un avanzamento di grado e poi, nel 1978, un encomio solenne, quando, in servizio con altri colleghi, riconosce due pericolosi latitanti, blocca l’auto sulla quale stanno viaggiando e li arresta dopo una violenta colluttazione.
Ci sono alcuni episodi che hanno addirittura il sapore della leggenda. Le cronache giornalistiche dell’epoca riportano, ad esempio, il racconto dell’arresto, in un cinema del centro, di un pericoloso ricercato. Filadelfo - dicono i suoi colleghi ai giornali - si sedette accanto a lui e gli disse in un orecchio “adesso non far baccano, così non se ne accorge nessuno”, prima di mettergli le manette, coprirle con l’impermeabile ed uscire a braccetto con lui. Come due vecchi amici.
Insomma, era un poliziotto di razza, appassionato, tenace, coraggioso. Ma era anche un uomo estremamente semplice, sensibile e alla mano, sempre disponibile con tutti e, in particolare, con le persone più bisognose.
Con sua moglie Maria Ciculla, si era stabilito in un piccolo appartamento nella zona orientale di Palermo, nel rione Medaglie d’oro. Qui aveva messo su famiglia, assicurando una vita tranquilla e serena ai suoi tre figli: Vincenzo, Francesca e Maurizio. Li accompagnava a scuola, li portava al cinema, si sforzava sempre di ritagliarsi per loro del tempo. Dal loro racconto, emerge la figura di un papà sempre attento e presente. Scorreva così la vita di questa semplice famiglia siciliana. Fino alla mattina di quell’11 gennaio del 1979.
11 gennaio 1979
Era un giovedì quel giorno e Filadelfo si stava godendo gli ultimi scampoli di una licenza premio ottenuta dopo la promozione a vicebrigadiere. Intorno alle 8.30 del mattino, uscì di casa e si diresse verso la sua auto, parcheggiata nei pressi di piazza Tenente Anelli. Dal balcone, sua moglie Maria e il primogenito Vincenzo lo salutano affettuosamente. L’azione omicida dei killer è fulminea. Sono in quattro e sono arrivati a bordo di una Fiat 128 di colore rosso. Aprono il fuoco non appena avvistano Filadelfo e gli scaricano addosso numerosi colpi di lupara e P38. Il piombo delle pallottole lo raggiunge al volto, alle spalle, all’addome e ad un fianco. Filadelfo, estremamente abile con la pistola, non ha neanche il tempo di impugnare la sua arma. Muore sul colpo, sotto lo sguardo dei suoi cari. Maria all’epoca aveva 36 anni. I suoi figli erano in tenerissima età: Vincenzo aveva poco più di 10 anni; Francesca 5 e il più piccolo, Maurizio, appena 1 anno. Lui, Filadelfo, di anni ne aveva solo 44.
Vicenda giudiziaria
La notizia dell’omicidio di Aparo, uno dei più noti e valorosi agenti in servizio presso la Questura, genera un putiferio in città. Palermo è messa sotto assedio dalle forze di polizia, con decine di posti di blocco ed elicotteri che si alzano in volo per controllare dall’alto le strade. Ed è proprio un elicottero che, pochi minuti dopo l’agguato, individua la 128 utilizzata dai killer, abbandonata e data alle fiamme in un agrumeto di borgata Pagliarelli, sulla strada per Altofonte.
La svolta nelle indagini sembra arrivare prestissimo, a meno di un mese dall’omicidio. Il 2 febbraio, infatti, viene arrestato e trasferito all’Ucciardone un ragazzo di 23 anni, Giuseppe Ferrante. È uno stigghiolaro, un venditore ambulante di stigghiola, un piatto tipico della cucina siciliana a base di budella animale. Un uomo racconta agli inquirenti di aver riconosciuto Ferrante, nei minuti dell’agguato, nei pressi del luogo del delitto, vestito con un giubbotto scuro e con la barba folta. Una testimonianza che viene confermata dal racconto di un ragazzino di 10 anni, che sostiene anch’egli di aver visto un giovane con barba e baffi e n giubbotto scuro, nello stesso luogo indicato dall’altro testimone. Sono informazioni che convincono gli investigatori che quel venditore ambulante sia coinvolto “in concorso con ignoti” nell’omicidio di Filadelfo e che, nello specifico, abbia svolta la funzione di "palo". In primo grado, a Ferrante viene comminata una pena a 28 anni di carcere, che diventeranno ergastolo nel secondo grado di giudizio. Infine, a quattro anni dall’omicidio, il caso viene archiviato. Tutti gli altri “ignoti” - esecutori e mandanti di quel delitto - sono tutt’ora ignoti.
Sulla vicenda si addensano alcune ombre e un alone di mistero. Ferrante, infatti, dal carcere di Favignana dove è rinchiuso, si è sempre dichiarato innocente. Il 27 dicembre del 2000, il quotidiano la Repubblica pubblica una lettera scritta dall’ambulante condannato per l’omicidio di Aparo: “mi trovo in carcere da 21 anni e ancora non so spiegarmi il perché. Gli apparati investigativi hanno voluto condannare un colpevole, ma non il colpevole”.
Nella lettera si fa riferimento, tra l’altro, alle testimonianze rese da diversi collaboratori di giustizia che lo scagionano. A parlare per primo di questa storia è, nel 1993, il pentito Gaspare Mutolo, tra i più stretti collaboratori di Totò Riina. Audito in Commissione Antimafia, Mutolo indica in Ferrante un innocente ingiustamente condannato per un delitto che in realtà non ha commesso. E, sulle ragioni dell’agguato a Filadelfo Aparo, aggiunge a verbale: “c'era tutto un complesso di cose. Quando si sapeva che c’era qualche personaggio scomodo, si cercava di eliminarlo, si eliminava. Non è che in polizia erano tutti bravi o tutti cattivi. In polizia purtroppo, l’ambiente di Palermo era quello: se c’era uno che accedeva nelle indagini e nella ricerca dei latitanti, si sapeva e si eliminava. Ci fu un certo Aparo che per esempio è stato ucciso perché lo chiamavano il "segugio" perché andava sempre cercando i latitanti. Ed è stato ucciso”.
Il movente del delitto, come era facilmente intuibile, è da ricercarsi dunque nella dedizione al dovere del poliziotto e nella volontà di Cosa nostra di eliminare una pericolosa minaccia. Mutolo, peraltro, nella sua testimonianza, assegna la responsabilità dell’uccisione ai corleonesi Pino Greco “scarpuzzedda” e Giuseppe Lucchese, altro fedelissimo di Riina. E non è l’unico a parlare di questo delitto. Dopo le sue, arrivano infatti anche le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza, Francesco Di Carlo, Francesco Marino Mannoia e Salvatore Contorno, che sembrano tutte concordare sull’estraneità di Ferrante. Così, gli avvocati dell’uomo decidono di presentare un’istanza di revisione del processo, che però viene bocciata dalla Corte d'Assise d'Appello, secondo la quale la colpevolezza del venditore ambulante “non si può escludere del tutto”.
Ancora sulle ragioni che avrebbero spinto i boss di Cosa nostra a decretare la morte di Aparo, Di Carlo racconta che sarebbero state legate alla determinazione con cui il poliziotto si era messo sulle tracce di Mario Prestifilippo e Pino Greco, sfiorandone l’arresto in due diverse circostanze. Per questo, i due avrebbero chiesto e ottenuto da Stefano Bontade il permesso di uccidere il vicebrigadiere. Sta di fatto che, a distanza di oltre 40 anni da quell’efferato delitto, i nomi di mandanti ed esecutori non sono stati messi nero su bianco in nessuna sentenza.
Memoria viva
Tuttavia, la memoria di Filadelfo Aparo è estremamente viva. Lo è soprattutto innanzitutto per i suoi figli, privati troppo presto e con estrema crudeltà dell’affetto di un padre buono e premuroso. Ma è una memoria viva anche per la comunità di Libera e per la Cooperativa Beppe Montana - Libera Terra, che, proprio a Lentini, lavora i terreni confiscati e si impegna anche in memoria di Filadelfo. Così come è una memoria viva per la Polizia, che ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’uccisione, ne ricorda il sacrificio, indicando in lui un punto di riferimento per quanti servono le istituzioni e la collettività nella difesa dei valori della legalità e della democrazia.
Io non so se i palermitani abbiano dimenticato Filadelfo Aparo. So di certo, però, che con il suo sacrificio, con il suo lavoro, con il sacrificio dei suoi colleghi, è riuscito a svegliare le coscienze dei palermitani. È riuscito a rendere Palermo una città migliore.