9 novembre 1995
Catania (CT)

Serafino Famà

Un avvocato innamorato del diritto e della giustizia, ucciso dalla mafia per non aver piegato la sua dignità e quella della sua professione.

In terra di mafia indossare la toga di avvocato può costare tanto. A volte - troppe volte - anche la vita. Un processo finito male, un intoppo di procedura, una parola di troppo. Oppure un favore negato, la rigidità nell’interpretare la propria funzione, l’intransigenza, l’etica professionale. Per queste, come per tante altre ragioni, può accadere che quella toga diventi una condanna a morte. C’è chi sceglie, allora, la strada più comoda. E c’è chi, invece, quel rigore non è disposto a metterlo in discussione. Mai.

Serafino era nato a Misterbianco, un paesone alle porte di Catania, il 3 aprile del 1938. Inseguendo quella che si può definire come una vera e propria vocazione, aveva scelto di diventare avvocato. Una strada, quella della carriera forense, perseguita con determinazione, dedizione e sacrificio. Ben presto si affermò come uno dei più noti penalisti della Sicilia orientale, e si diffuse l’immagine di Famà come un uomo che credeva fermamente nella toga che indossava e che nell’avvocatura non vedeva solo un mestiere. Aveva, infatti, un viscerale senso della giustizia, che aveva deciso di declinare alla luce di quella sua ferma convinzione del diritto di ogni persona ad avere la giusta difesa nel processo penale. Ecco perché aveva scelto di diventare proprio un avvocato penalista. Ed ecco perché si rivolsero a lui alcuni mafiosi di primo piano, come Piddu Madonia - ex numero due di Cosa Nostra e boss di Gela - e gran parte della famiglia mafiosa dei Pulvirenti.

Garantire i diritti degli imputati era il suo lavoro, e Serafino lo faceva con passione e convinzione. Ma era ben saldo, in lui, il senso di una moralità che impediva qualsiasi sconfinamento. Era anzi attento, quasi in maniera maniacale, ad evitare qualsiasi ambiguità.

Quello di Catania, del resto, era in quegli anni un ambiente estremamente difficile ed anche una semplice frequentazione poteva costare caro. Lo diceva continuamente ai suoi figli - Fabrizio e Flavia - di fare attenzione, di evitare alcune amicizie, di valutare bene con chi accompagnarsi. Nessuna paura, ripeteva, ma da certe persone era meglio stare lontano. “Onestà e coraggio”, diceva sempre.

Se ti comporti con onestà e coraggio, non devi avere paura di nulla.
Serafino Famà

Questi consigli erano gesti d’amore per i suoi figli. Perché Serafino era anche questo: un padre attento e premuroso, che non trascurava mai i propri affetti e che si sforzava, pur tra i numerosi impegni, di tenere al centro delle proprie attenzioni.

E poi era un tipo ironico, generoso, un po’ eccentrico in quel suo modo di abbigliarsi e di portare quella barba e quei capelli neri e folti. Un uomo generoso, semplice, che amava il calcio e le partitelle con gli amici e che godeva delle domeniche trascorse a raccogliere frutta nella sua casa di campagna.

Nelle aule del tribunale o nel suo studio legale, però, erano il rigore e la serietà ad attribuirgli uno stile e un modo di agire che erano inconfondibili. Nello studio ascoltava i suoi clienti con cura e attenzione, raccoglieva notizie e spunti, provava ad andare in profondità nelle cose che gli venivano dette. Ma poi era lui a decidere la linea difensiva e non ammetteva intromissioni. In aula, poi, era attentissimo ai ruoli che ognuno interpretava nel processo. Dava rispetto ai suoi interlocutori, anche quando le udienze si accendevano. Ma lo stesso rispetto lo pretendeva, per lui e per l’intera categoria che rappresentava indossando quella toga. Rigore e serietà, senza compromessi e senza tentennamenti. Quel rigore e quella serietà furono la sua condanna a morte.

Video testimonianza di Flavia Famà, figlia di Serafino

9 novembre 1995

La sera di giovedì 9 novembre 1995 Serafino era come sempre nel suo studio legale catanese. Sbrigate le pratiche di giornata, intorno alle 21.00, si era incamminato verso la sua auto, parcheggiata in piazzale Raffaello Sanzio. Con lui c’era il collega Michele Ragonese.

Erano appena usciti sulla strada, all’incrocio tra via Raffaello Sanzio e via Oliveto Scamacca, proprio nel centro di Catania, quando l’avvocato Famà, sotto lo sguardo incredulo del suo collega, fu raggiungo da una raffica di sei colpi di pistola. Erano stati esplosi da un commando composto da due killer, all’apparenza molto giovani, che poi si erano dileguati incuranti di quel testimone oculare. Chi aveva sparato aveva usato una beretta calibro 7,65 dotata di un silenziatore. Quattro di quei sei colpi raggiunsero Serafino al volto e al torace. Lui si accasciò al suolo, ancora vivo. Sarebbe morto una ventina di minuti più tardi, dopo un’inutile corsa all’Ospedale Garibaldi. Aveva 57 anni, una moglie e due figli di 20 e 13 anni.

La notizia dell’omicidio dell’avvocato Famà fa il giro della città in pochi minuti. L’ambiente dell’avvocatura commenta sotto shock il livello di imbarbarimento raggiunto. I suoi colleghi, indossando la toga, vegliano per un’intera notte la salma di Serafino, profondamente e sinceramente turbati da quel drammatico atto di violenza e da quell’assurdo delitto.

Il Procuratore Gabriele Alicata risponde ai giornalisti parlando di “un fatto gravissimo, perché si tratta di un rappresentante della classe forense che si batteva con tenacia, onestà e bravura”.

Sul luogo dell’omicidio arrivano anche alcuni colleghi della vittima. Tra di loro, riportano le cronache dell’epoca, c’è anche l’avvocato Enzo Guarnera, difensore di diversi pentiti di mafia: “Quello che è accaduto è sconvolgente - dice - e dimostra che in questa città sono saltati tutti gli equilibri”. Sconcerto e preoccupazione traspaiono anche dalle parole del sindaco Enzo Bianco, che definisce l’agguato “un fatto devastante, che scuote la città”.

Vicenda giudiziaria

Eppure, per un anno e mezzo, gli inquirenti sembrano brancolare nel buio. Fino al 6 marzo del 1997, quando Alfio Giuffrida, esponente di spicco di una delle più potenti famiglia di mafia di Catania, quella dei Laudani, divenuto intanto collaboratore di giustizia, decide di raccontare, con dovizia di particolari, quello che sa su quel delitto, segnando di fatto la svolta nelle indagini.

Secondo il pentito, a decretare e ordinare la morte di Serafino Famà è stato Giuseppe Maria Di Giacomo, potente reggente della cosca Laudani, subentrato alla guida del clan dopo l’omicidio di Gaetano Laudani, ucciso nel 1992. Di Giacomo dà avvio ad una brutale escalation di violenza, che culmina in una serie di efferate azioni criminali: l’autobomba alla caserma dei Carabinieri di Gravina di Catania del 18 settembre 1993; l'omicidio della guardia carceraria Luigi Bodenza, avvenuto il 24 marzo del 1994; e, appunto, l’assassinio dell'avvocato Famà.

Esecutori materiali sono stati, invece, Salvatore Catti e Salvatore Torrisi. Lui e Fulvio Amante, dice Giuffrida, avevano assistito all’agguato dall’interno di una vettura ferma poco lontano. E poi aggiunge ulteriori dettagli, come quello della partenza dei killer alla volta di Catania, la sera dell’omicidio, dopo un summit che si era svolto in una stalla di Aci Bonaccorsi.

Il movente dell’omicidio, stando al racconto del collaboratore di giustizia e alle successive ricostruzioni degli inquirenti, è da ricercarsi proprio nel rigore e nell’intransigenza dell’avvocato Famà. Di Giacomo, infatti, era stato arrestato mentre era a letto con Stella Corrado, moglie di suo cognato Matteo Di Mauro, con cui evidentemente aveva instaurato una relazione clandestina. Fatto questo che avrebbe potuto generare conseguenze assai gravi sugli assetti del clan, al punto da indurre l’uomo a programmare addirittura l’omicidio della donna. Un progetto vanificato però dall’arresto del boss.

Ma il momento della svolta nella decisione di decretare la morte dell’avvocato arriva quando, nell’ambito di un processo in cui Di Giacomo era imputato, si tenta di fare pressione sulla Corrado perché scagioni il boss con alcune dichiarazioni “aggiustate”. Serafino Famà, che difende in quel procedimento Di Mauro, consiglia, invece, alla donna di astenersi da qualsiasi dichiarazione. Fallisce così anche questo ulteriore piano. Quel consiglio costerà la vita a Serafino Famà.

I responsabili dell’omicidio dell’avvocato penalista vengono portati alla sbarra con la pesantissima accusa, tra l’altro, di omicidio volontario pluriaggravato. La sentenza della Corte di Assise di Catania, datata 4 novembre 1999 e poi confermata in appello il 21 febbraio 2001, ha condannato all’ergastolo Amante, Catti, Di Giacomo, Di Mauro, Fichera, Gangi e Torrisi. Il collaboratore di giustizia Alfio Lucio Giuffrida e Mario Demetrio Basile vengono condannati invece a 18 anni. “La mancata deposizione della Corrado, certamente conseguente all'intervento dell'avvocato Famà - scrivono i giudici nella sentenza - era stata vista dal Di Giacomo come la causa diretta della irrealizzabilità del proprio scopo, ovvero la scarcerazione”. E ancora: "Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell'omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell'attività professionale espletata dall'avvocato Famà”. L’ordine di ammazzare il penalista era partito dal carcere di Firenze, dove Di Giacomo era detenuto, per il tramite di un suo altro cognato.

Memoria viva

Dopo la condanna degli assassini di mio padre e del mandante ho deciso di lasciare la mia terra e di andare avanti, pensavo di poter lasciare, oltre lo stretto, quella morsa al cuore che mi accompagnava da quel 9 novembre. Quella stretta allo stomaco talmente forte che toglie il respiro, che ti provoca nausea e mancamenti. Dieci anni dopo ho incontrato don Luigi Ciotti e gli altri familiari di vittime innocenti delle mafie e ho capito che l’unico modo per allentare quella morsa sul cuore è assumersi l’impegno della memoria, che il modo migliore per andare avanti è stare accanto a chi oggi combatte quelle stesse battaglie per la libertà e la democrazia, sulle orme dei nostri cari.
Flavia Famà, figlia di Serafino

Fabrizio e Flavia oggi continuano a tenere viva la memoria di loro padre Serafino, continuando a raccontarne la storia e a tramandarne la testimonianza di coraggio, rigore etico e moralità.

A lui è intitolata la Camera Penale di Catania, che ha istituito il “Premio biennale Avvocato Serafino Famà” per il miglior atto giudiziario, “al fine di ricordare l’Avvocato Serafino Famà, il Suo sacrificio, e la Sua dedizione alla toga”.

Nel luglio del 2011 a Borgo Sabotino (LT) è stato inaugurato il “Villaggio della legalità” intitolato a Serafino Famà, purtroppo più volte oggetto di raid vandalici e atti intimidatori. Nel 2013, Libera ha prodotto il documentario “Tra due fuochi. Serafino Famà, storia di un avvocato” di Flavia Famà e Simone Mercurio.