Un giorno ci incontreremo di nuovo
di Flavia Famà
Sono già passati ventidue anni da quel maledetto giovedì. Duecento sessantaquattro mesi da quando ho visto mio padre per l’ultima volta. Ottomila e trenta giorni da quel 9 novembre 1995. Avevo solamente tredici anni e una gioia di vivere tipica di chi ancora si sta affacciando alla vita. Pensavo che la mafia era una cosa brutta ma distante sia nello spazio – per me era solo a Palermo - sia nei modi: tanto si ammazzavano tra di loro. Questi erano solo alcuni degli stereotipi stupidi con cui sono cresciuta. Ma a quel tempo non sapevo quanto sbagliavo. E’ bastato poco per capire che semplicemente facendo il proprio lavoro in maniera onesta e coraggiosa si può essere antimafiosi. E non servono gesti eclatanti o striscioni o proclama. La vera lotta alla mafia, la vera battaglia per la legalità si costruisce nel quotidiano, nelle piccole azioni e questo mio padre lo sapeva molto bene. E’ stato un grande esempio come uomo e come avvocato. Si batteva ogni giorno per il rispetto delle regole e per quello che dopo la sua morte diventerà il giusto processo: un insieme di principi e di garanzie che adesso diamo per scontati ma che ai suoi tempi non erano previsti in nessuna norma e che lui rivendicava strenuamente. Essere coraggiosi e onesti può essere pericoloso, essere anche liberi può costare la vita, soprattutto se vivi in Sicilia negli anni novanta e se sei un avvocato. La richiesta che gli costò la vita non era neppure qualcosa di illegale, anzi era una cosa semplice: far testimoniare una donna in un processo a carico del boss Di Giacomo. Non si sa cosa potesse riferire, ma il boss Di Giacomo riteneva che lei potesse fornire degli elementi utili a scagionarlo. La donna in questione, Stella Corrado, era la cognata e al contempo l’amante del boss e non voleva testimoniare. La legge prevede che i parenti stretti degli imputati non sono tenuti a testimoniare e questa fu la linea scelta da mio padre. Il codice deontologico degli avvocati ricorda che l’avvocato deve fare gli interessi del proprio assistito agendo in maniera libera e indipendente da qualsiasi condizionamento. Ed è questo modo di essere avvocato, questa libertà che mio padre ha pagato con la vita. Quei proiettili contro di lui è come se li sentissi anche io sulla mia pelle ogni giorno, ma il 9 novembre quelle ferite sanguinano di più. Un dolore che negli anni è diventato impegno soprattutto grazie a don Luigi Ciotti e a Libera che mi hanno preso per mano e mostrato il valore della testimonianza attiva. Una testimonianza che non vuole essere solo un ricordo nostalgico di chi non c’è più, ma anche un impegno accanto a chi oggi fa quelle stesse battaglie che combatteva mio padre. Quei colpi calibro 7,65 hanno ucciso il corpo ma hanno reso immortale mio padre e le sue idee. Vedere la faccia non è importante, è il cuore che conta. Un giorno ci incontreremo di nuovo.