La stagione delle stragi
C’è un filo rosso che unisce la morte di Vincenzo Lo Iacono a Portella della Ginestra. Un filo rosso, come il sangue delle tante vittime innocenti provocate da quell’intreccio tra mafia, neofascismo e istituzioni “deviate” che ha seminato morte e dolore nella Sicilia della fine degli anni ’40. Quando braccianti, contadini e sindacalisti difendevano la terra e la dignità del lavoro contro la mafia agraria e contro la politica che, di quella mafia, si serviva per tenersi stretto il potere.
È la Sicilia terremotata dalle elezioni politiche del 20 aprile 1947, che segnano la straordinaria, e per molti versi inattesa, vittoria della sinistra. Spinti dal movimento contadino e dalle battaglie sindacali, i partiti di sinistra escono trionfanti alle urne, ma vengono ugualmente esclusi dal governo, a Roma come a Palermo. Un governo a guida democristiana che non disdegna di reggersi sull’appoggio delle destre. Le forze di sinistra, però, non demordono, tengono dritta la barra e alto il livello dello scontro politico.
È una stagione di grandi battaglie, che lascia sul terreno decine di morti ammazzati. Ufficialmente - anche se non è cristallizzato in una qualche sentenza - a sparare è la mafia della banda di Salvatore Giuliano. Ma tutti sanno, a Roma come a Palermo, che quelle stragi hanno matrici diverse, che chiamano in causa altri interessi, altre ragioni, altri mandanti.
In questo contesto, 51 giorni dopo gli 11 morti di Portella, il 22 giugno del 1947, si consuma una giornata infernale. È l’attuazione di un piano di attacco coordinato e studiato nei dettagli, che, a suon di mitra, bombe a mano e bottiglie incendiarie, colpisce sedi di partito e di sindacato.
Intorno alle 23.30 del 22 giugno del ‘47, il fragore delle armi e delle esplosioni sveglia Cinisi, San Giuseppe Jato, Borgetto, Monreale, Carini. E poi Partinico, dove si registra l’attacco più grave, che prende di mira la sezione del PCI e della CGIL. E dove si registra anche il bilancio più pesante: dieci feriti e due morti. Giuseppe Casarrubea, 48 anni, muore sul colpo. Vincenzo, che di anni invece ne aveva appena 38, spirerà in ospedale sei giorni più tardi, per la gravità delle ferite riportate nell’agguato.
Vincenzo
Della vita privata di Vincenzo non abbiamo molte notizie. Operaio contadino, nato il 12 novembre 1909, di lui sappiamo solo che la passione per la politica e per il sindacato, a difesa dei diritti e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori, aveva da sempre costituito un aspetto fondamentale della sua personalità e del suo impegno. Si trattava di scegliere da che parte stare, se da quella degli sfruttatori o degli sfruttati. Lui, in questa scelta, non aveva mai avuto dubbi. Si era schierato apertamente contro gli interessi della mafia agraria, per difendere strenuamente la dignità di contadini e braccianti agricoli.
Frequentava da sempre quella sezione del PCI e della CGIL, che aveva contribuito a fondare nel ’44. La sezione si trovava nei pressi di Corso dei Mille e non era mai stata un semplice ritrovo di amici e compagni, ma, al contrario, era un vero e proprio luogo di discussione e di elaborazione politica.
Il 22 giugno del 1947
Era lì, Vincenzo, insieme ai suoi compagni, anche nella tarda serata di quel 22 giugno del 1947. C’erano Leonardo Addamo, Giuseppe Salvia, Salvatore Mancuso, Salvatore Patti e Giuseppe Casarrubea. Mancava solo il segretario, lo studente in legge Raffaele La Franca.
Intorno alle 23.30, il gruppetto si intratteneva seduto davanti all’ingresso della sezione. Proprio in quei minuti, un camioncino rosso, entrato in città da Porta Alcamo, stava percorrendo lentamente corso dei Mille.
Il mezzo prese una traversa per poi sbucare proprio di fronte alla sede del partito. Si fermò a non più di 10-12 metri da essa. Fu l’inferno di fuoco. Vincenzo non ebbe scampo e fu raggiunto dai colpi di mitra e dalle schegge delle bombe. Rimase gravemente ferito. Trasportato in ospedale, morì sei giorni più tardi. A terra, ucciso sul colpo, invece, era rimasto Giuseppe Casarrubea. Dieci infine i feriti.
Vicenda giudiziaria
Nelle ore precedenti, qualcuno aveva fatto circolare un volantino a firma del bandito Giuliano, in cui si annunciava la guerra totale ai partiti di sinistra. Una circostanza strana, quasi come se qualcuno avesse voluto indicare preventivamente una pista per leggere le ragioni di quella notte di fuoco e fiamme.
In Sicilia e in altre città d’Italia, gli attacchi del 22 giugno provocarono indignazione, proteste e manifestazioni di piazza.
Il 24, alla ripresa dei lavori, la Costituente si occupò dei fatti siciliani in una infuocata seduta di interrogazioni, nella quale in particolare Mario Scelba, Ministro dell’Interno del governo De Gasperi, smentì la possibilità di un movente politico, di fatto avvalorando la tesi di un movente unicamente mafioso. Lo aveva fatto già dopo Portella.
Una tesi respinta con forza dai partiti di sinistra, che denunciarono senza mezzi termini le responsabilità dei neofascisti e l’intreccio di interessi politico-mafiosi alla base di quella stagione di violenza.
Una stagione sulla quale non si è mai fatta davvero luce. Il processo sancì la responsabilità dell’attentato alla banda di Salvatore Giuliano, scagionando gli imputati mafiosi autori dell’assalto alla Camera del lavoro.
Memoria viva
Ed è qui che entra in gioco Giuseppe Casarrubea jr, il figlio dell’altra vittima dell’agguato alla sezione di Partinico. Quel bambino rimasto orfano a poco più di un anno di vita, diventato adulto, studiò, approfondì, scavò negli archivi, nei verbali e tra le carte processuali di Viterbo e Roma, per provare a dare un senso a quella storia ma anche al suo dolore per la morte del padre. Un dovere anche verso la memoria di Vincenzo.
Divenne dirigente della scuola media di Partinico. Storico e saggista di fama nazionale, autore di decine di libri e pubblicazioni, ha fondato un archivio intitolato alla memoria di suo padre.
A lui e a Vincenzo, nel 2019, il comune di Palermo ha dedicato una strada. Giuseppe jr., il bambino diventato storico, è morto il 7 giugno del 2015, dopo una vita spesa a ricostruire i fili di quella stagione di morte e violenza.
“Da una distanza di circa dodici metri, quel gruppo di lavoratori fu aggredito con il lancio di bombe a mano, bottiglie incendiarie e colpi di mitra. Azione rapidissima e mortale. Tragico il bilancio: due morti e diversi feriti, anche tra i passanti. Mio padre fu colpito tra i primi probabilmente perché aveva visto in faccia alcuni degli aggressori. Morì subito. Il tempo di tentare un vano rifugio all’interno della sezione. Vincenzo Lo Iacono morì una settimana dopo. Tutti i presenti rimasero feriti. Addamo perse l’uso della gamba e dovette supplire con un’apposita scarpa, che mi ricordo da quando ero ragazzo, aveva una suola di parecchi centimetri più alta. Il Salvia, colpito a una mano, perse l’uso di due dita. Fu poi minacciato dalla mafia e dovette emigrare al Nord, credo a Livorno. Patti fu colpito al braccio, alla coscia e al petto. Mancuso se la cavò con ferite più leggere, trovando scampo presso i vicini.
Fu una trappola, un tiro al bersaglio. L’esplosione delle bombe provocò il panico anche tra la folla presente a Piazza Garibaldi, che cominciò a fuggire per le vie più disparate. I musicanti si buttarono giù dal palchetto musicale. Nella calca ci furono altri feriti”.
Il racconto dello storico, seppur non ci aiuti molto a ricostruire i dettagli della vita di Vincenzo, ci consente però di cogliere i dettagli degli ultimi momenti della sua vita. Una vita spesa per difendere il lavoro, la dignità umana, la giustizia. Una missione, spinta fino all’estremo sacrificio.
Noi vorremmo approfondire ulteriormente questa vita. Per questo vi chiediamo di aiutarci a raccogliere documenti, fotografie, informazioni, in grado di diradare le nebbie del tempo e dell’oblio e di aiutarci a capire di più e meglio chi era Vincenzo, i suoi affetti, i suoi sogni e le sue speranze.