22 giugno 1947
Partinico (PA)

Giuseppe Casarrubea

C'è un filo rosso che unisce la morte di Giuseppe Casarrubea a Portella della Ginestra. Un filo che unisce la sua a quella di tante altre morti ancora avvolte dal mistero. Il mistero di un intreccio di interessi criminali, terrorismo politico e neofascismo, depistaggi e istituzioni "deviate", su cui ancora oggi non è stata fatta verità e giustizia.

La stagione delle stragi

C’è un filo rosso che unisce la morte di Giuseppe Casarrubea a Portella della Ginestra. Un filo rosso, come il sangue delle tante vittime innocenti provocate da quell’intreccio tra mafia, neofascismo e istituzioni “deviate” che ha seminato morte e dolore nella Sicilia della fine degli anni ’40. Quando braccianti, contadini e sindacalisti difendevano la terra e la dignità del lavoro contro la mafia agraria e contro la politica che, di quella mafia, si serviva per tenersi stretto il potere.

È la Sicilia terremotata dalle elezioni politiche del 20 aprile 1947, che segnano la straordinaria, e per molti versi inattesa, vittoria della sinistra. Spinti dal movimento contadino e dalle battaglie sindacali, i partiti di sinistra escono trionfanti alle urne, ma vengono ugualmente esclusi dal governo, a Roma come a Palermo. Un governo a guida democristiana che non disdegna di reggersi sull’appoggio delle destre. Le forze di sinistra, però, non demordono, tengono dritta la barra e alto il livello dello scontro politico.
È una stagione di grandi battaglie, che lascia sul terreno decine di morti ammazzati. Ufficialmente - anche se non è cristallizzato in una qualche sentenza - a sparare è la mafia della banda di Salvatore Giuliano. Ma tutti sanno, a Roma come a Palermo, che quelle stragi hanno matrici diverse, che chiamano in causa altri interessi, altre ragioni, altri mandanti.

In questo contesto, 51 giorni dopo gli 11 morti di Portella, il 22 giugno del 1947, si consuma una giornata infernale. È l’attuazione di un piano di attacco coordinato e studiato nei dettagli, che, a suon di mitra, bombe a mano e bottiglie incendiarie, colpisce sedi di partito e di sindacato.

Intorno alle 23.30 del 22 giugno del ‘47, il fragore delle armi e delle esplosioni sveglia Cinisi, San Giuseppe Jato, Borgetto, Monreale, Carini. E poi Partinico, dove si registra l’attacco più grave, che prende di mira la sezione del PCI e della CGIL. E dove si registra anche il bilancio più pesante: dieci feriti e due morti. Uno di loro è, appunto, Giuseppe Casarrubea.

Giuseppe

Giuseppe era nato nell’ultimo scorcio dell’800, il primo di ottobre del 1899. Era un maestro d’ascia, un ebanista di grande capacità. Sua moglie, donna Graziella, si occupava delle faccende di casa. Una donna semplice ma di fortissimi e saldi principi, “tutta casa e chiesa” la definirà anni più tardi Giuseppe jr., il figlio nato dal matrimonio con Giuseppe.

Era talmente bravo, questo artigiano, che l’amministrazione di Partinico gli aveva affidato la realizzazione del bellissimo portale di legno del palazzo del Municipio, purtroppo poi sostituito da un portone di alluminio.

Appena diciottenne, Giuseppe si era arruolato per prendere parte alla prima guerra mondiale. Era l’8 novembre del 1917. Indossò per anni quella divisa, richiamato in altre campagne militari e, naturalmente, nel secondo conflitto mondiale, prima di essere definitivamente congedato il 23 giugno del 1942. Il coraggio e la fedeltà dimostrati in battaglia gli erano valsi diversi riconoscimenti.

Quattro anni più tardi, il 4 marzo del ’46, era nato Giuseppe jr. Questo bambino, rimasto orfano a poco più di un anno di vita, avrà un ruolo importante in questa storia e, in particolare, nella battaglia mai sopita per la ricerca della verità e della giustizia. Per suo padre e per tutte le vittime innocenti di questa stagione di morte, figlia dell’intreccio perverso tra la mafia e i neofascisti.

La passione per la politica e per il sindacato, a difesa dei diritti e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori, aveva da sempre costituito un aspetto fondamentale della personalità e dell’impegno di Giuseppe. Si trattava di scegliere da che parte stare, se da quella degli sfruttatori o degli sfruttati. Lui, in questa scelta, non aveva mai avuto dubbi. Si era schierato apertamente contro gli interessi della mafia agraria, per difendere strenuamente la dignità di contadini e braccianti agricoli.

Frequentava da sempre quella sezione del PCI e della CGIL, inaugurata nel ’44 nei pressi di Corso dei Mille, a poca distanza dalla casa di via La Perna dove viveva con donna Grazielle e Giuseppe jr. Non un semplice ritrovo di amici e compagni, ma un vero e proprio luogo di discussione e di elaborazione politica.

Il 22 giugno del 1947

Era lì anche nella tarda serata di quel 22 giugno del 1947. Uscendo, come spesso faceva, aveva tentato di portare con sé il bambino. Ma sua moglie - costantemente preoccupata di quell’impegno così intenso in un momento così difficile - glielo aveva impedito. Così Giuseppe era uscito da solo di casa. Non sarebbe tornato mai più.

Intorno alle 23.30, stava seduto davanti alla sezione, insieme a Vincenzo Lo Iacono e a diversi altri compagni. Proprio in quei minuti, un camioncino rosso, entrato in città da Porta Alcamo, stava percorrendo lentamente corso dei Mille. Il mezzo prese una traversa per poi sbucare proprio di fronte alla sede del partito. Si fermò a non più di 10-12 metri da essa. Fu l’inferno di fuoco. Giuseppe tentò di scappare verso l’interno. Lo trovarono in una pozza di sangue, ucciso a 48 anni a colpi di mitra.
Sei giorni dopo, sarebbe morto in ospedale anche Vincenzo Lo Iacono, 38 anni. A terra rimasero 10 feriti.

Vicenda giudiziaria

Nelle ore precedenti, qualcuno aveva fatto circolare un volantino a firma del bandito Giuliano, in cui si annunciava la guerra totale ai partiti di sinistra. Una circostanza strana, quasi come se qualcuno avesse voluto indicare preventivamente una pista per leggere le ragioni di quella notte di fuoco e fiamme.

In Sicilia e in altre città d’Italia, gli attacchi del 22 giugno provocarono indignazione, proteste e manifestazioni di piazza.
Il 24, alla ripresa dei lavori, la Costituente si occupò dei fatti siciliani in un’infuocata seduta di interrogazioni, nella quale in particolare Mario Scelba, Ministro dell’Interno del governo De Gasperi, smentì la possibilità di un movente politico, avvalorando la tesi di un movente unicamente mafioso. Lo aveva fatto già dopo Portella. Una tesi respinta con forza dai partiti di sinistra, che denunciarono senza mezzi termini le responsabilità dei neofascisti e l’intreccio di interessi politico-mafiosi alla base di quella stagione di violenza.

Una stagione sulla quale non si è mai fatta davvero luce. Il processo sancì la responsabilità dell’attentato alla banda di Salvatore Giuliano, scagionando gli imputati mafiosi autori dell’assalto alla Camera del lavoro.

Memoria viva

Ed è qui che entra in gioco Giuseppe jr. Quel bambino rimasto orfano così presto, diventato adulto, studiò, approfondì, scavò negli archivi, nei verbali e tra le carte processuali di Viterbo e Roma, per provare a dare un senso a quella storia e al suo dolore.

Divenne dirigente della scuola media di Partinico. Storico e saggista di fama nazionale, autore di decine di libri e pubblicazioni, ha fondato un archivio intitolato alla memoria di suo padre, cui nel 2019, il comune di Palermo ha dedicato una strada.

Lui, il bambino diventato storico, è morto il 7 giugno del 2015, dopo una vita spesa a ricostruire i fili di quella stagione di morte e violenza.


“Non ho alcun ricordo di mio padre. Avevo 15 mesi quando lo uccisero. Tutto quello che so di lui l’ho saputo da mia madre, che ricordo vestita a nero per un tempo interminabile, come ricordo anche il ‘pagliaccetto’ nero a ginocchio, con le bretelline incrociate sulla schiena, che tenni per lungo tempo, dopo quel tragico 22 giugno 1947. Di mio padre mi sono rimaste nella memoria pochissime cose che mi raccontava mia madre. I suggerimenti che gli dava di non recarsi al partito/sindacato, mentre lui cocciuto ci andava persino la domenica a discutere con gli altri suoi compagni comunisti (..) Cos’altro posso dire ancora di mio padre? Certo avrei molte cose da dire. Quelle che ho imparato da mia madre, che mia madre portava scritte sulla sua pelle, e quelle che avrei da sempre voluto sussurrargli a un orecchio. Non ho potuto, ma è come se l’avessi sempre fatto.

Egli con la sua presenza costante nella mia vita mi ha dato l’esempio della lotta fino al sacrificio estremo. Per valori intramontabili che a qualcuno oggi stuzzicano il sorriso sardonico: la Patria, l’ideale, la giustizia. Tre valori che gli Italiani hanno perduto”.
Giuseppe Casarrubea Jr. - figlio di Giuseppe