Nicolò Azoti era nato a Ciminna, un paesino in provincia di Palermo, il 13 settembre del 1909. Era il quarto dei sette figli nati dal matrimonio tra Melchiorre Azoti e Orsola Lo Dolce. Nel 1917, ancora bambino, si trasferì con tutta la sua famiglia a Baucina, poco più di 5 km di distanza dal paese d’origine. Qui Ninetta, sorella maggiore di Nicolò, aveva ottenuto il posto di ostetrica. Nicolò era un bambino sveglio, vivace, intelligente. Tra le tante cose che lo appassionavano, benché piccolissimo, c’era la musica. A nove anni suonava già il bombardino, nome comune del flicorno baritono, un grosso strumento a fiato con il quale si esibiva nella banda del paese da solista. “Il maestro della banda musicale di Baucina, Antonino Genovese - racconta sua figlia Antonina - doveva tenerlo alto sulle sue braccia perché Nicolò raccogliesse gli applausi del pubblico incredulo”. Crescendo, Nicolò divenne un bravo ebanista, lavoro cui si dedicava con la stessa passione che metteva in tutte le cose. Amava la musica lirica, di cui conosceva tutte le opere. E poi lo sport, la caccia, gli amici: “un uomo eclettico e ricco di interessi”. Non gli mancò nulla, neanche impugnare le armi nella Seconda guerra mondiale e nella guerra d’Africa.
Nel 1939, Nicolò sposò Domenica “Mimì” Mauro, la figlia di una famiglia di commercianti, da cui ebbe due figli, Pinuccio e Antonina. Erano anni difficili in Sicilia, anni nei quali la fame e la povertà riducevano a condizioni di miseria le famiglie dei contadini e dei braccianti agricoli, sfruttati, maltrattati, umiliati da condizioni di vita e di lavoro che mortificavano la dignità delle persone. Nicolò mal tollerava questa profonda ingiustizia e cominciò a interessarsi molto più intensamente di questa situazione. Furono anni di impegno instancabile, accanto a donne e uomini costretti a lavorare fino a 16 ore al giorno per pochi spiccioli, senza alcun diritto. Nicolò si batteva per difendere i contadini da queste condizioni di sfruttamento e di miseria, chiedendo leggi più giuste, il riconoscimento dei diritti e della dignità del lavoro. Le leggi esistevano, ma in Sicilia chiedere che venissero applicate era un azzardo, un atto rivoluzionario che poteva costare caro. Come quando, dopo essere diventato Segretario della Camera del Lavoro di Baucina, aveva fondato l’Ufficio di Collocamento e costituito la cooperativa agricola San Marco, cui, grazie alle norme dei Decreti voluti dall’allora Ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo, furono assegnati 180 ettari di terreni incolti. Ma non basta. Nicolò tentò anche di dare applicazione concreta a un’altra legge, quella sulla divisione dei prodotti agricoli, per la quale ai contadini spettava il 60% della produzione, mentre il restante 40% finiva nelle mani del padrone. Era troppo per gli agrari e i gabellotti mafiosi, disposti a tutto pur di difendere il latifondo.
La notte dell’attentato
Il 21 dicembre del 1946 in casa Azoti si respirava già l’atmosfera del Natale. Antonina racconta così quei momenti: “ci addormentammo, io nel lettone e lui (Pinuccio, ndr) nel suo lettino, quel lettino che con tanto amore papà aveva costruito per lui quando era nato. Dormivo e già sognavo, quando spari improvvisi mi fecero trasalire: mi ritrovai seduta in mezzo al letto nella stanza buia e, prima ancora che io potessi invocarla, grida strazianti mi ferirono le orecchie e... il cuore. Era lei, la mamma, che aveva riconosciuto nei lamenti provenienti dalla strada, la voce di papà e gli chiedeva: “Cola, Cola, chi ti ficiru?” “Mimì, mi spararu!”.
La mafia del feudo non perdonò a Nicolò le sue battaglie a difesa dei contadini. Gli spararono 5 colpi di pistola, alle spalle, vigliaccamente, mentre rincasava dalla Camera del Lavoro insieme a due amici. Sopravvisse due giorni, nei quali raccontò a sua moglie e ai Carabinieri chi fosse stato a volerlo morto e perché. Poi spirò, il 23 dicembre, a soli 37 anni. Sua moglie ne aveva 31 di anni, Pinuccio 6, Antonina 4.
Vicenda giudiziaria
Le indagini finirono nel nulla, nonostante Nicolò avesse fatto il nome del mandante del suo omicidio, un gabellotto mafioso che però ebbe il tempo di allontanarsi dal paese, di costruirsi un alibi e procurarsi dei falsi testimoni. Il risultato fu l’archiviazione.
Quelli che seguirono furono anni assai difficili per Mimì e i bambini. Anni di solitudine e di vuoto. Anni di miseria e di povertà. E, come se non bastasse, furono anni di silenzio e di oblio per la storia di Nicolò, di un dolore vissuto nel privato, che nessuno voleva e poteva capire: “il silenzio aveva annullato le battaglie del sindacalista - dice ancora Antonina -, si era creato un vuoto dove al dolore privato della famiglia corrispondeva la smemoratezza collettiva”. Domenica morì nel 1989. Due anni prima, se n’era andato anche Pinuccio.
Memoria viva
A Nicolò è dedicato il presidio di Libera a Biella e il Consorzio Libera Terra Mediterraneo ha dedicato al sindacalista il vino Grillo "Rocce di Pietra Longa".
La sua storia è raccontata nel libro che la figlia Antonina, maestra per 35 anni e instancabile testimone, ha voluto dedicargli. Si intitola “Ad alta voce. Il riscatto della memoria in terra di mafia” ed è il racconto di un percorso difficile me pieno di orgoglio, quello che ha portato al riscatto della famiglia Azoti, di Domenica, Pinuccio e Antonina. A cominciare dal 1992 quando, nel trigesimo della morte di Giovanni Falcone, quella bambina di 4 anni diventata adulta sale sul palco e, ad alta voce, rivendica orgogliosamente di essere figlia di Nicolò Azoti.
A 18 anni ho cominciato a capire di chi ero figlia, quando ho letto il libro di Michele Pantaleone Mafia e politica. Lì c’è l’elenco dei sindacalisti uccisi, ho trovato il nome di mio padre. ‘Ecco chi sono. Questo è mio padre’, mi sono detta. Quella era la prova che non era colpevole, che aveva avuto degli ideali ed era morto per difenderli. Per la prima volta entravo in contatto con una storia alternativa, quella dell’antimafia