Rosalia Pipitone, da tutti chiamata Lia, nasce a Palermo e suo padre non è un uomo qualunque: è Antonino Pipitone, boss del quartiere popolare dell’Acquasanta e uomo di Totò Riina. È una bambina dalla carnagione chiara, i capelli biondi e dei grandi occhi marroni, vispi e aperti al mondo. All’età di 10 anni rimane orfana di madre e da allora crescerà con suo padre e sua zia.
Con il passare degli anni comincia a capire chi è davvero suo padre e inizia a ribellarsi, già a partire dalla scelta della scuola superiore da frequentare. Lei vuole continuare a studiare e frequentare il liceo artistico, è appassionata d’arte, di pittura, di colori e di bellezza, ha una propensione naturale per il disegno e vuole imparare, scoprire nuove cose. Ama le poesie di Pablo Neruda e la musica di Guccini, come tanti suoi coetanei. A suo padre questo proprio non va giù, ma grazie alla sua testardaggine e caparbietà riuscirà a vincere questa piccola battaglia e a frequentare quel liceo. Nonostante questa piccola vittoria, quel padre-padrone pone dei limiti alla sua creatività, alla sua voglia di conoscere e di vivere liberamente la sua età.
La scelta d'amore
Prova a rinchiuderla in casa, ma Lia invece, qualche anno più tardi, fugge da casa con il fidanzato Gero, un ragazzo conosciuto a scuola. Una vera e propria fuitina. I due ragazzi riescono anche a sposarsi, nonostante Gero viene minacciato da alcuni boss locali, dietro ordine del papà di Lia. Da quell’amore giovane e ribelle nasce un bambino, Alessio, amato e desiderato dai due neo-genitori. Intanto però suo padre non si dà pace, continua a cercarla per costringerla a tornare a Palermo dove, secondo lui, deve stare. Antonino riuscirà nella sua impresa ma Lia non si dà pace, non può accettare le regole dettate da suo padre, boss dell'Arenella. Così trova il coraggio di contestarlo, anche pubblicamente. Lia non vuole fare la casalinga: ha i suoi sogni, ideali e progetti. Non vuole sottostare a quelle regole, non vuole far crescere il suo bambino in quel clima, vuole che lui possa essere libero, così non si fa domare, non rinuncia al suo spirito indipendente. Nel frattempo l’amore tra Lia e Gero finisce e suo padre non può accettarlo. È un nuovo disonore per la sua famiglia. Lia, infatti, sta così rompendo, una dopo l’altra, tutte le tradizioni che Cosa Nostra impone alle donne di famiglia, una vita di silenzio e sottomissione e il pensiero fisso di suo padre è l’onore della famiglia nel quartiere di Palermo.
Siamo nella Palermo degli anni Ottanta, Lia ama viverla, le piace uscire, ma è costantemente sotto osservazione. Una volta rientrata da scuola è costretta a rimanere a casa per il resto della giornata e, quelle poche volte che le viene concesso di uscire, è vigilata dagli affiliati del clan. Fino a quando un bel giorno, è sospettata di frequentare un altro uomo. Lia frequenta un lontano cugino, Simone Di Trapani, che diventa presto il suo migliore amico, ma nel quartiere si mormora che i due giovani abbiano una relazione extraconiugale. Le voci arrivano subito alla famiglia che non ne può più di quella giovane donna che continua a mettere in discussione la loro subcultura mafiosa. “Meglio una figlia morta che separata”, ripete spesso il padre Antonino che non sopporta che sua figlia è troppo libera e ribelle per fare la donna di mafia, per essere la figlia del boss dell’Arenella. Ecco che allora la storia della presunta relazione extraconiugale diviene subito un pretesto, falso, messo in giro ad arte nel quartiere e in Cosa Nostra per giustificare un’azione punitiva nei confronti di Lia.
Il 23 settembre del 1983
È il 23 settembre 1983 e Lia, giovane ventiquattrenne, bella, solare e piena di vita, entra in una sanitaria all'Arenella, in via Papa Sergio, in cui va spesso. Ma quel giorno non sarà come gli altri. All'improvviso entrano due uomini che nel tentativo di rapinare la cassa le sparano. Lia viene colpita e muore sul colpo, in una calda mattina di fine estate.
Ma la verità è che non si tratta di una rapina finita male, quegli uomini l'hanno seguita: il loro obiettivo non è la cassa del negozio, ma Lia.
Il giorno dopo l’assassinio, Simone Di Trapani, il migliore amico di Lia, viene ritrovato morto sotto il balcone di casa sua. Agli occhi degli inquirenti sembra subito un suicidio ma, secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Angelo Fontana, anche in questo caso, due killer di Cosa Nostra inscenarono una terribile messinscena: simularono un suicidio, scaraventando Simone dal quarto piano del palazzo in cui abitava, in piazza Generale Cascino, non prima però di averlo obbligato a scrivere un messaggio: «Mi uccido per amore».
Vicenda giudiziaria
Alcuni collaboratori racconteranno che l'ordine di uccidere Lia venne proprio da Cosa Nostra, con l’appoggio del padre, che non poteva permettere di essere disonorato da una figlia ribelle. I due sicari della cosca dell’Acquasanta misero così in atto una messinscena: la rapina era finta, l’ordine era di uccidere Lia, quella figlia che aveva deciso di spezzare i suoi legami con la propria famiglia mafiosa, di cui portava il cognome, ma non era una di loro. Uccisa per il suo desiderio di indipendenza e di libertà, uccisa perché libera. Perché aveva deciso di vivere la sua vita e di riempirla d'amore per lei e il figlio. E Cosa Nostra era contraria.
Solo nel 2012, grazie alla determinazione del figlio Alessio, la Procura di Palermo ha riaperto le indagini sul suo omicidio.
Mia madre voleva essere solo una donna libera di vivere la sua vita, ma evidentemente anche questo dava fastidio alla mafia!
Si riesce così a ricostruire che il boss Nino Madonia convocò Antonino Pipitone per comunicargli la decisione di uccidere sua figlia perché creava troppi problemi e disonore; davanti a questa decisione il padre non si sottrasse e non prese le sue difese, nel rispetto della mentalità di Cosa Nostra.
“L'omicidio di Lia Pipitone maturò all’interno di Cosa nostra, in ossequio a delle regole ferree imposte dalla cultura mafiosa fu pianificato ed eseguito dalla stessa organizzazione mafiosa, con modalità tali da far apparire la morte della ragazza come l’epilogo tragico di una rapina, allo scopo di occultare le reali ed effettive motivazioni del delitto”, scrive la giudice Maria Cristina Sala nelle motivazioni della sentenza che il 17 luglio 2019 ha condannato – con l’accusa di essere i mandanti dell’omicidio - a 30 anni di carcere i boss Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. A giugno 2020 la condanna è stata confermata dalla seconda sezione della Corte di assise di appello di Palermio. Si legge ancora nella sentenza che “La presunta relazione extraconiugale della figlia del mafioso Pipitone, l’offesa all’onore ed al prestigio del padre si era tradotta, inevitabilmente, in una offesa all’onore ed al prestigio dell’intera articolazione mafiosa cui egli apparteneva. Da qui la decisione di uccidere Lia per lavare con il sangue l’affronto che, secondo le regole del codice mafioso, non poteva essere tollerato. Trattavasi, nella cultura mafiosa, di un fatto gravissimo, tra quelli che non potevano restare impuniti e che richiedevo una soluzione estrema”.
Memoria viva
L’Associazione Millecolori onlus di Palermo ha fondato il Centro Antiviolenza intitolato alla memoria di Lia Pipitone. Il centro fornisce sostegno e consulenza sociale, psicologica e legale alle vittime di violenza, avviando percorsi di elaborazione del trauma e di uscita dalla violenza, individuale e di gruppo, e percorsi di empowerment.
Nel 2012 il figlio Alessio insieme al giornalista Salvo Palazzolo, pubblica il libro “Se muoio, sopravvivimi. La storia di mia madre che non voleva essere più la figlia di un mafioso”, edito da Melampo. Ed è proprio grazie anche alle verità racchiuse in questo libro che la Procura di Palermo ha potuto riaprire il caso di Lia e giungere ad una condanna.
Vicino al mare, d'autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.