Poco dopo le 22 del 10 aprile 1991, l’Italia fu scossa da una delle più grandi tragedie della sua storia, la più grave che abbia mai colpito la Marina mercantile dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Poco dopo le 22 di quel 10 aprile il traghetto Moby Prince, salpato dal porto di Livorno alla volta di Olbia, andò in collisione, ancora in rada, con la petroliera Agip Abruzzo. Centinaia di tonnellate di petrolio si riversarono a mare, prendendo immediatamente fuoco e avvolgendo di fiamme il traghetto. Alla fine si contarono 141 morti. Un’ecatombe.
Ma l’Italia quel giorno conobbe anche un’altra tragedia. La tragedia silenziosa, ma non per questo meno drammatica, di un ragazzo di 23 anni, ucciso in un bar a più di mille chilometri da Livorno, in terra di mafia. A Lentini, in provincia di Siracusa, chissà se quella notte si parlò più della Moby Prince o di questo giovane commerciante di abbigliamento, ammazzato a sangue freddo. Innocente.
Una famiglia semplice e onesta la sua. Il papà Concetto aveva un suo negozio a Lentini e con tanti sacrifici lui e la moglie Silvia avevano investito nell’apertura di un altro negozio di abbigliamento che avrebbe gestito Cirino, un modo per aiutare il loro primogenito a costruirsi un futuro. Un lavoro semplice, onesto, pulito. Lontano dal puzzo degli affari criminali che ammorbavano la città e che, non di rado, sfociavano in faide, guerre e scontri che lasciavano a terra morti ammazzati. Tanti, troppi morti ammazzati. Le arance, gli appalti, i finanziamenti pubblici.
Alle due del pomeriggio di quel 10 aprile, poco più di sette ore prima la collisione della Moby Prince con la petroliera, Cirino Catalano era da poco arrivato nella centralissima Piazza Mazzini, di fronte al Golden bar, un locale sempre gremito di gente. Cirino doveva accompagnare il fratello quindicenne, Carlo, al campo scuola quel pomeriggio. Ma Carlo aveva un po' di febbre e così aveva deciso di andare a bere un caffè nel bar vicino casa prima della riapertura pomeridiana del negozio, nonostante non frequentasse mai il Golden bar. Aveva parcheggiato la sua Opel Station Wagon e si era diretto nel bar. La vita dei lentinesi stava lentamente tornando alla normalità, ma ancora faceva i conti con le conseguenze del terremoto che, all’1.24 del 13 dicembre 1990, aveva sconvolto la Val di Noto, devastandola. Nella sola città di Lentini, divenuto uno dei comuni simbolo del sisma, si contarono quasi 600 edifici inagibili e circa 2200 sfollati. Ma non solo. La già fragile economia del territorio era stata messa ancor più in ginocchio dalla crisi che, dopo il terremoto, aveva colpito il settore agrumicolo, basato soprattutto sulla produzione e la commercializzazione di arance. Un settore sul quale, a tutti i livelli, la mafia da tempo aveva messo le mani.
Il 10 aprile del 1991
Alle due del pomeriggio di quel 10 aprile chissà cosa passava per la mente di Cirino, mentre parcheggiava la sua macchina di fronte al Golden bar. Forse era perso nei pensieri di un ragazzo di 23 anni, nei suoi sogni, nei suoi progetti di vita. La sequenza di morte fu fulminea. Arrivarono in tre a bordo di un’Alfa 33. Imbracciavano fucili automatici calibro 12 e pistole. Arrivarono in tre e tre furono i morti che lasciarono sul selciato. Cirino stava sorseggiando il suo caffè al bancone e vicino a lui si trovavano Salvatore Motta e Salvatore Sambasile, la vittima designata. Una vera e propria esecuzione, tre colpi a distanza ravvicinata. Cirino cercò di fuggire, ma fu raggiunto dai killer all’esterno del bar. Ucciso come un boss mafioso. Anche Motta, ferito, tentò la fuga e un medico che abitava nelle vicinanze lo soccorse in piazza Nazionale. Trasportato in ospedale, morì poco dopo per le ferite riportate.
Un’azione rapida e fulminea, eseguita da uomini a volto scoperto. Lo stesso cassiere del bar non si rese conto di ciò che stava avvenendo, scambiando il rumore degli spari per dei fuochi d’artificio. I killer fuggirono subito dopo, continuando dall’auto a sparare in aria, verso finestre e balconi dei palazzi tutt’intorno, al solo scopo di incutere terrore. Salvatore Motta, alle spalle precedenti per porto abusivo di coltello, era imparentato con Giuseppe Furnò del clan Nardo, ma che non era coinvolto in affari illeciti. Il padre gestiva una piccola impresa di movimento terra, cui il terremoto aveva offerto l’occasione di un po’ di lavoro per la rimozione delle macerie. Sambasile, anch’egli precedenti per porto abusivo di armi e traffico di droga, era stato beccato anche a dare fuoco ai negozi di chi si rifiutava di pagare il pizzo. Subito dopo la strage, si disse e si scrisse che Cirino faceva parte del gruppo. Ma Cirino era incensurato. E, soprattutto, non era come loro. Cirino vendeva vestiti. Cirino era innocente e non c’entrava.
Quel giorno, dentro e fuori il Golden bar, nessuno vide niente.
Ci sono tragedie che fanno rumore ed altre che avvengono nel silenzio. Quel 10 aprile del 1991 l’Italia le conobbe entrambe.
Erano da poco passate le 14 quando una telefonata cambiò la nostra vita. Dall'altro capo comunicarono a mia madre che qualcosa di grave era accaduta a mio fratello. All'epoca avevo 15 anni. Avvertii subito una brutta sensazione, di corsa mi precipitai al bar, riconoscendo gli abiti e le scarpe di Cirino sotto il lenzuolo bianco. Accanto a mio fratello c'era già mio padre con un grosso livido che si era procurato per il dolore e la disperazione. Oggi a distanza di 30 anni da quel maledetto 10 aprile, mi trovo a essere la voce di mio fratello, ucciso barbaramente a soli 23 anni. Io un giorno vorrei riveder la mia stella.
Vicenda giudiziaria
Subito le indagini si indirizzano verso gli ambienti mafiosi di Lentini e l’8 novembre del 1996 la Corte d’assise emette una sentenza condannando a 20 anni Roberto Sipala, autoaccusatosi nel 1993 di aver fatto parte del commando mafioso. L’obiettivo dell’agguato era Sambasile, che solitamente si incontrava al Golden bar con due suoi uomini. Cirino Catalano e Salvatore Motta furono scambiati per gli altri due obiettivi.
Dopo quasi trent'anni, nel febbraio del 2020, i carabinieri del Ros di Catania, coordinati dalla DDA del capoluogo etneo, hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per decine di appartenenti al clan Santapaola - Ercolano. I carabinieri hanno eseguito indagini su 23 omicidi avvenuti nel catanese a partire dagli anni Ottanta. Tra questa serie di omicidi, anche la strage in cui perse la vita Cirino, ucciso perché i killer non volevano testimoni.
L’inchiesta, la cosiddetta operazione Thor, è partita nel 2018 a seguito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Francesco Squillaci, appartenente a Cosa nostra etnea. Attraverso le sue dichiarazioni si sta facendo luce su trent’anni di guerra tra “famiglie” rivali, faide e interessi economici. E a Lentini in quegli anni era in corso una faida per accaparrarsi miliardi di lire in arrivo dalla regione Sicilia e dallo Stato per la ricostruzione post terremoto. Squillaci, conosciuto come Martiddina, aveva avuto l’incarico dal boss Sebastiano Nardo, alleato di Cosa nostra catanese, di uccidere Sambasile per punirlo di fare affari illeciti nella propria roccaforte di Lentini. Il via libera era arrivato anche dal boss Aldo Ercolano, alleato dei Santapaola, che aveva organizzato il gruppo di fuoco "in trasferta" a Lentini. Squillaci accusa per la strage anche il padre Pippo Martiddina, Nunzio Cocuzza e Francesco Maccarone di essere gli esecutori materiali. Il processo è tutt’ora in corso. Sebastiano Nardo sta affrontando il processo davanti alla Corte d’Assise di Siracusa, mentre gli altri tre hanno scelto il rito abbreviato.
Memoria viva
L’impegno dei suoi familiari, in particolare di Carlo e Giovanna, fratello e sorella minori di Cirino, ha puntato innanzitutto a questo, a dimostrare che lui non c’entrava con quella strage e con quanto c’era dietro. Lui era innocente. La comunicazione ufficiale, il decreto che sanciva la sua innocenza, è arrivato nel 2001: “Il sig. Cirino Catalano, deceduto a Lentini il 10.4.1991, può considerarsi, allo stato degli atti, vittima innocente della mafia e della criminalità organizzata”. Poche righe, in freddo burocratese, che devono aver significato tanto per Carlo e Giovanna.
Poi pian piano la memoria ha fatto il suo corso. Incontri nelle scuole, piccoli gesti, le testimonianze e i racconti di Carlo. Il nome di Cirino è stato inserito su una targa posta nel 2016 in Villa Marconi, proprio davanti all’Istituto Comprensivo della città. Sulla targa, oltre a quello di Cirino, c'erano i nomi di tutte le altre vittime innocenti di Lentini: Filadelfo Aparo, Carmelo Di Giorgio, Alfio Pisano e Francesco Vecchio. Tante, troppe vittime innocenti. C'erano i nomi perché quella targa è stata prima imbrattata e vandalizzata da alcuni adolescenti, successivamente anche la nuova targa posta dall'amministrazione comunale è stata distrutta. Oggi non vi è nulla a ricordare i nomi di questi cittadini lentinesi.