28 febbraio 1985
Reggio Calabria (RC)

Giuseppe Macheda

Giuseppe era un uomo onesto, che prendeva seriamente il suo lavoro. Davanti a sè tutta la vita da vivere, appena sposato e un bambino in arrivo. La sua vita è stata spezzata prima di riuscire a prenderlo tra le braccia. Ucciso perché insieme ai suoi colleghi della Polizia Municipale stava facendo il bene della sua città, Reggio Calabria.

Ci sono città italiane alle quali abusiamo edilizio e cementificazione selvaggia hanno deturpato il volto. Un fenomeno dalle conseguenze devastanti in termini ambientali e di salvaguardia del territorio e delle bellezze paesaggistiche. Interi quartieri, zone residenziali, ville e palazzi sorti in maniera disordinata, costruiti in aree di particolare pregio, talvolta addirittura sull’acqua. Tutto in spregio alle più elementari regole di buon senso e di legalità. Le mafie hanno sempre fatto di questa attività una straordinaria fonte di ricchezza, troppo spesso nel silenzio e contando su collusioni e complicità di chi invece avrebbe dovuto contrastarle.  Reggio Calabria ha conosciuto tutto questo. Un vero e proprio sacco edilizio, gestito da aziende e imprenditori senza scrupoli che hanno visto crescere le loro aziende grazie alla protezione delle famiglie di ‘ndrangheta. 
Giuseppe Macheda era un vigile urbano. Attento, scrupoloso, inflessibile. Forse per queste particolari qualità, era stato inserito in una squadra interforze, coordinata da un maresciallo dei Carabinieri, specificamente impegnata sul fronte del contrasto all’abusivismo edilizio. Una squadra composta da dieci uomini, per lo più vigili urbani che, in sei mesi di attività, aveva depositato circa 50 denunce nei confronti di imprenditori e proprietari di immobili. Il mandato era chiaro e preciso: reprimere il fenomeno. Giuseppe era stato destinato alla zona sud della città. A coordinare il lavoro di questo pool, il Pretore di Reggio, Angelo Giorgianni, a cui Giuseppe e i suoi colleghi rispondevano direttamente. Siamo nel 1985 e in quegli anni la mafia del cemento è nel pieno della sua espansione. Intrecci perversi e indicibili tra imprenditoria e cosche, una commistione impressionante tra economia legale e illegale.

L'incontro con Mimma

Nel febbraio del 1985 Giuseppe ha 30 anni appena. Sua moglie, Domenica Zema, ne ha 26. È incinta, al sesto mese di gravidanza. Giuseppe era entrato nel Corpo dei vigili urbani nel 1981. Mimma era la sorella di un suo collega. Si erano conosciuti ed era scattato il colpo di fulmine. Il 10 giugno del 1984 i due si erano sposati. Poi la notizia della gravidanza. Giuseppe non vedeva l’ora di diventare, di lì a pochi mesi, papà: “l'idea del bambino in arrivo - dice sua moglie - lo faceva impazzire”. Giuseppe divideva così la sua vita tra l’attesa della paternità, l’amore per sua moglie e quel lavoro, cui teneva tanto e cui si dedicava con passione e dedizione. Certo, era un lavoro rischioso e impegnativo. Lo dimostravano alcuni episodi inquietanti che erano accaduti in quei mesi e in quegli ultimi giorni. Ultimi in ordine di tempo, alcune telefonate mute e poi, soprattutto, l’atto vandalico subito da un suo collega, l’agente Ferdinando Cortiglia, al quale il 25 febbraio del 1985, era stata data alle fiamme l’auto. Un avvertimento, finalizzato evidentemente a ottenere un ammorbidimento di quella inflessibilità che stava caratterizzando il lavoro della squadra antiabusivismo. Ma tant’è, non si poteva abbassare la testa. Bisognava continuare.

Il 28 febbraio del 1985

Il pomeriggio del 28 febbraio Giuseppe partecipa, insieme ai suoi colleghi, a una riunione operativa. Si incontrano nella sede del Comando della Polizia Municipale. Con loro, c’è anche il Pretore Giorgianni. Le cose di cui discutere sono tante e la riunione si prolunga. Poi, al termine del vertice, Giuseppe prende la strada di casa. Intorno alle 20.45 suona al citofono, in via Madonna dell'Itria: “sono arrivato, aprimi il garage”, dice a sua moglie. Poi fa per risalire in auto. Non ci riuscirà. Il fuoco del killer non gli lascia scampo. Due colpi di fucile a pallettoni, esplosi a distanza ravvicinata, lo uccidono sul colpo. Il rumore degli spari e le urla strazianti di Domenica allertano i vicini. Provano a soccorrerlo, chiamano l’ambulanza, ma ormai non c’è nulla da fare. Giuseppe è morto, ucciso dalla mafia del cemento, a 30 anni. Due giorni dopo, il 2 marzo, si svolgono i funerali in forma solenne. Il Consiglio comunale, riunito nei minuti dell’agguato, approva un ordine del giorno che conferma la volontà di perseguire l’abusivismo edilizio, sostenendo l’azione dei vigili urbani, che il primo di marzo sfilano silenziosamente per le vie della città.
Qualche anno dopo la martedì Giuseppe, Mimma verrà assunta come vigile urbano. Un modo per sostenere la vita di questa giovane donna e del piccolo Giuseppe, nato nel giugno del 1985. Il percorso di riappropriazione della memoria di questa storia non è stato facile. C’è voluto tempo e impegno, ma alla fine i risultati sono arrivati e oggi la memoria di Giuseppe Macheda è viva.

Vicenda giudiziaria

Le indagini non possono fare a meno di collegare quel barbaro omicidio all’attività di Giuseppe e a quella del pool nel quale lavorava. E così gli inquirenti si mettono al lavoro per andare a fondo nelle attività legate alla mafia del cemento, alle costruzioni abusive. Vengono messe sotto la lente di ingrandimento le aziende impegnate nel settore edilizio e per quali il lavoro di Macheda e dei suoi colleghi aveva costituto o poteva costituire un ostacolo da eliminare. Si arriva nell’ottobre del 1987, poco più di due anni e mezzo dopo l’assassinio di Giuseppe. I magistrati spiccano tre mandati di cattura per concorso nell’omicidio del vigile urbano reggino. Destinatari dei provvedimenti sono Carmelo Ficara, all’epoca 31enne, Roberto Barreca e Francesco Faccì. Gli ultimi due vengono arrestati, Ficara invece si dà alla latitanza. Secondo gli inquirenti, Ficara, imprenditore edile ritenuto vicino alle cosche Latella e Serraino, aveva messo a disposizione delle organizzazioni mafiose le sue attività, facendo da copertura legale per le attività di reinvestimento del denaro sporco gestite dai clan. Ma, soprattutto, Ficara in quegli anni lavorava alla costruzione di numerose villette di lusso, costruite praticamente sul mare del litorale reggino di Bocale. Lui dunque, in concorso con gli altri due, sarebbe stato mandante e organizzatore dell’omicidio di Giuseppe Macheda. Nessuna certezza invece sugli esecutori. 
La tesi dell’accusa regge al processo e porta alla condanna all’ergastolo di Carmelo Ficara. In appello, però, nel 1990, l’imprenditore verrà assolto. Il suo nome è comparso, molti anni dopo, nell’operazione Monopoli, con la quale, nell’aprile del 2018, la DDA di Reggio Calabria spedisce in galera quattro imprenditori ritenuti espressione della ‘ndrangheta. Tra loro c’è Ficara, che intanto aveva continuato a fare affari. 

Giuseppe era una persona molto tranquilla. Suo padre era falegname, la madre casalinga; ma veniva da una famiglia dai valori solidi. Davvero troppo, troppo poco tempo insieme. Non ho neppure una foto di Pino del periodo in cui eravamo fidanzati: neanche una. E il classico Super8, il filmino che allora si faceva del viaggio di nozze, visto che il fotografo di turno ci metteva sempre dei mesi a consegnarlo, non abbiamo fatto neanche in tempo a vederlo una volta.
Mimma - la moglie di Giuseppe

Memoria viva

Nel luglio del 2014, Libera ha promosso la piantumazione di un albero in piazza Castello, in memoria di Giuseppe e del suo collega Giuseppe Marino, ucciso 8 anni dopo. Poi, il 16 ottobre un’altra tappa importante di questo cammino di memoria e impegno, con l’intitolazione ai due Giuseppe della nuova sede del Corpo dei vigili urbani reggini di viale Aldo Moro.