Nel nostro paese si vive sotto una cappa di paura e io denuncio per costruire un cambiamento, una vita migliore non tanto per me ma per i miei figli.
Vincenzo scrisse queste parole di suo pugno nel 1987. Le scrisse nero su bianco in una lettera che indirizzò a Enzo Biagi. Parole semplici, chiare, lucide, in cui è racchiuso il senso di questa storia. La storia di un uomo onesto che amava la sua terra. La storia di un commerciante dalla schiena diritta che amava la libertà.
Vincenzo Grasso era nato il 24 febbraio del 1938 e cresciuto in una famiglia numerosa. Le sue radici affondano nella Locride, in quel lembo di Calabria ionica ricco di storia e cultura, che già gli antichi Greci avevano scelto per fondare alcune tra le loro più ricche e potenti colonie. Dieci fratelli in tutto, uniti da un legame fortissimo e da un profondo senso della famiglia. Relazioni sane, non come quelle malate della cultura ‘ndranghetista, che da sempre violenta il concetto di famiglia, svuotandolo del suo significato più autentico.
Si era fatto da solo Cecè, così lo chiamavano tutti gli amici. Senso del sacrificio, abnegazione, forza di volontà e tanta determinazione lo avevano aiutato a crescere forte, a diventare un uomo capace di scelte coraggiose. Un uomo semplice, onesto, che amava profondamente la vita. Un amore che diventava apertura agli altri, che si traduceva in una genuina curiosità per le cose del mondo, in una straordinaria capacità di incontro ed empatia. Il suo sorriso è la testimonianza forse più autentica di questo modo di essere. Ecco, tutto questo era Vincenzo. Era sempre stato così, sin da quando, giovanissimo, aveva dovuto lasciare la scuola per contribuire a mantenere la famiglia. Aveva imparato un mestiere ma non si era mai accontentato. Con umiltà, aveva continuato a coltivare l’ambizione di crescere, di farsi strada contando solo sulle proprie forze. L’idea di aprire un’officina meccanica ad Ardore era stato il primo passo, l’inizio di un percorso professionale e imprenditoriale che lo avrebbe portato a mettere su una piccola azienda, una concessionaria di auto, barche e motori marini. Piccola ma capace di garantire alla sua famiglia una vita dignitosa e, soprattutto, onesta. La decisione di trasferire l’attività a Locri, una quindicina di chilometri più a nord, era stato il passo successivo. Via Marconi: l’officina sotto e la sua famiglia sopra, i poli attorno ai quali ruotava la sua esistenza.
L’incontro con Angela
La sua famiglia Vincenzo l’aveva messa su, anche quella con ostinata determinazione, insieme ad Angela. Si erano conosciuti per caso, un’estate di qualche anno prima, quando questa ragazza pugliese era stata in vacanza qualche giorno in Calabria, ospite di un suo parente. Vincenzo se n’era innamorato a prima vista e aveva deciso di non lasciarsela scappare. Un amore vero, sincero, che Angela ricambiava. Vincenzo era capace di farsi centinaia di chilometri in un giorno pur di vederla, anche per poche ore. Alla fine i due si erano sposati e il frutto di questo amore - che ancora a distanza di tanti anni Angela definisce “grandissimo” - erano stati tre splendidi figli: Stefania e due gemelli, Fabio e Francesco.
Mettere su un’attività imprenditoriale a Locri non era una cosa semplice. Anzi, per un uomo onesto e forte come Vincenzo, poteva trasformarsi addirittura in un rischio. Perché in terra di ‘ndrangheta, quando fai il tuo lavoro con dignità, rispettando le regole e con onestà, corri il pericolo di scontrarti con chi crede di avere il diritto di decidere per te, di imporre con la violenza il suo dominio sulla vita degli altri. E questa roba Vincenzo non avrebbe mai potuto accettarla, lui che amava la libertà, che sapeva perfettamente da che parte stare. Così, quando erano iniziate le pressioni, Vincenzo non aveva esitato un attimo a fare la sua scelta: lui non avrebbe ceduto. E non doveva essere stata una scelta facile, perché ben presto quelle pressioni erano diventate soffocanti, continue, insistenti. Ben presto, erano diventate minacce esplicite a lui e alla sua famiglia, azioni dimostrative contro la sua attività commerciale, colpi di fucile nella saracinesca, attentati incendiari. E poi telefonate, tante telefonate, nelle quali una voce sconosciuta, con un’inflessione del nord, continuava a intimidirlo, a “consigliargli” di piegarsi alle richieste estorsive. Una di queste telefonate l’aveva presa Stefania, quando aveva 14 anni. Fu quel giorno che ebbe chiaro ciò che già aveva intuito.
La scelta di denunciare
Ma nonostante tutto Vincenzo rimane fermo. Non è disposto a prendere minimamente in considerazione l’idea di piegarsi. Così come, pur se combattuto e impaurito da quel clima, non ha intenzione di lasciare la sua terra. Ci pensa, ne parla con sua moglie, ma, alla fine, lascia perdere. È a Locri la sua vita e lì resterà. Denuncia tutto, ogni volta, ogni singolo episodio. Dal 1982, quando arriva la prima richiesta, al 1989. Sette lunghi anni passati a resistere, a fare avanti e indietro dalla caserma. Registra le telefonate, prova a dare agli inquirenti tutti gli elementi utili alle indagini. Ma niente, i suoi estorsori non si riescono a individuare e a lui tocca continuare a resistere. Lui lo fa, senza esitare. Certo, ha paura. Lo spaventano le minacce ai suoi figli, lo affatica quella sensazione di essere costantemente un obiettivo, ma non crede che chi sta provando a intimidirlo andrà oltre le minacce.
La sua vita va avanti così, ma Vincenzo non perde mai il sorriso. Stefania intanto è cresciuta e ha scelto di andare a studiare a Firenze. Vuole laurearsi in economia e Vincenzo ne è contento, perché così potrà dare una mano in azienda, occuparsi della contabilità, dare continuità ai frutti del suo lavoro. Certo, non lo entusiasma l’idea di doversi separare da sua figlia. Ma lui non è tipo da tarpare le ali e la lascia scegliere liberamente.
Il 20 marzo del 1989
Sabato 18 marzo 1989. Stefania, che intanto ha compiuto 19 anni, arriva da Firenze. Il giorno dopo era la domenica delle palme e la festa del papà e lei avrebbe trascorso questa doppia ricorrenza in famiglia. Come sempre, trova suo padre ad aspettarla in stazione. Quei giorni passano tranquilli, tra parenti e amici. Quando vivi lontano da casa e torni per qualche giorno nella tua terra, è questo che hai voglia di fare: ritrovare la gioia degli affetti e delle amicizie. La sera del 20 marzo Stefania scende di casa, saluta suo padre davanti all’officina ed esce per incontrare alcuni amici. Lui sta per chiudere. Nessuno dei due può immaginare che quello sarà il loro ultimo incontro.
Due killer armati di pistola e fucile si avvicinano in auto a Vincenzo mentre stava chiudendo l’officina. Erano in auto e lo hanno chiamato. Dal finestrino gli esplodono contro diversi colpi, senza lasciargli scampo. Vincenzo muore così, a 51 anni.
Per la sua famiglia è un colpo durissimo. Angela, che all’epoca aveva 44 anni, deve caricarsi sulle spalle il peso dell’attività. Appena dieci giorni dopo, è in officina a onorare gli impegni di Vincenzo. La forza di andare avanti gliela danno i suoi figli. E poi sa che non può darla vinta agli assassini di suo marito: l’azienda deve andare avanti. E andrà avanti, fino al 2005. Come andrà avanti l’impegno in una richiesta pressante e continua di verità e giustizia. Se ne fa carico Angela, se ne fanno carico Stefania e i suoi fratelli. Tutti continuano a chiedere che venga fatta luce su quell’omicidio, che ha tanto il sapore di un gesto dimostrativo rivolto a quanti, in Vincenzo, avrebbero potuto vedere un esempio da seguire.
Vicenda giudiziaria
Le indagini partono immediatamente. Non c’è dubbio su quale debba essere la pista da seguire: quello è un delitto di mafia e il movente che ha armato la mano degli assassini non può che essere nella fermezza di Vincenzo di fronte alle minacce estorsive, nelle sue denunce, nella sua indisponibilità a cedere, nel suo rigore. Eppure, nonostante la chiarezza del quadro, gli inquirenti non riescono a dare un volto a mandanti ed esecutori dell’omicidio. Dopo sei mesi, le indagini vengono archiviate. Quella morte ingiusta e assurda sembra destinata a rimanere impunita.
Il nostro è stato un matrimonio d’amore. Vincenzo era un compagno e un padre meraviglioso. Un uomo con tanta voglia di vivere, umiltà, apertura agli altri. Il suo sorriso mi è rimasto per sempre. Era un bravo imprenditore, un uomo che amava la giustizia e credeva fortemente nello Stato.
Memoria viva
Nel 1997 lo Stato riconosce il valore del sacrificio di Vincenzo, attribuendogli la Medaglia d’oro al merito civile. Nella motivazione, si parla di lui come di un “commerciante impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata”, del suo “inflessibile rigore morale”, di un “nobile esempio di ribellione alla violenza criminale, nonché di elette virtù civiche, spinte sino all'estremo sacrificio”. Resta però ancora senza risposta quella domanda di verità e giustizia, con i familiari di Vincenzo che insistono nel ricordare la normalità di quest’uomo, che non voleva assolutamente essere un eroe.
Il percorso di testimonianza della famiglia Grasso, che è rimasta a Locri a tenere viva la memoria di Vincenzo, ha incontrato nel tempo l’impegno di Libera e dei familiari delle vittime innocenti delle mafie. Per Libera e per la rete dei familiari, Stefania ha messo a disposizione le sue energie, coordinando per qualche tempo il settore memoria dell’associazione. A Gioiosa Ionica, una ventina di chilometri da Locri, l’Associazione don Milani ha avuto in gestione un bene confiscato a Rocco Schippa, l’assassino del Procuratore Bruno Caccia, ucciso nel 1983 a Torino, e ha scelto di intitolarlo proprio a Vincenzo Grasso. Qui la gioia di vivere dei ragazzi che animano la villa e l’orto tiene viva anche la memoria di Vincenzo. Nel 2009, a Vincenzo è stato intitolata anche l’Agenzia di inclusione sociale per il reinserimento dei soggetti provenienti dall’area penale di Locri.
Nel 2010 la Castelvecchi pubblica il libro “Dimenticati. Vittime della ‘ndrangheta” di Danilo Chirico e Alessio Magro. Il primo capitolo è dedicato alla storia di Vincenzo Grasso.
Nel 2016 il canale TelemiaTV ha dedicato una puntata del programma "Calabria Nera - Delitti Irrisolti - L'irrisolto omicidio di Vincenzo Grasso" di Antonio Tassone e Sara Fazzari alla storia di Vincenzo.
È inspiegabile come si possa decidere l’assassinio di un uomo onesto, per bene, padre di famiglia. È inspiegabile che, ancora oggi, quegli assassini non abbiano pagato il loro debito con la giustizia. È inspiegabile come, invece, abbiamo pagato noi, con il dolore, gli anni della tua assenza. E il dolore ci attraversa ancora oggi ogni volta che ti ricordiamo. Quel 20 marzo di 30 anni fa è diventato per noi “quel giorno”. Siamo andati avanti come tu ci hai indicato, come tu, con il tuo esempio, ci hai educato a fare. E penso che il nostro impegno a non dimenticare, a fare memoria di quello che è successo, a continuare a chiedere giustizia, sia la ragione della nostra vita. E tu ci accompagni, da quel giorno e per sempre, nei nostri cuori e nei cuori di tutti quelli che hanno incrociato il tuo sorriso.
Intervista alla moglie di Vincenzo Grasso durante l'assemblea dei familiari delle vittime innocenti delle mafie,Venezia marzo 2019