Cent'anni dall'omicidio di Sebastiano Bonfiglio, difensore dei diritti dei più deboli
di Anita Bonfiglio
Ho sempre amato la storia. Fra tutte le discipline del sapere umano è quella che fin da bambina mi ha maggiormente incuriosita ed appassionata. A cosa serve la storia? Per molti è solo una successione di nomi e date, per me è sempre stata la chiave di lettura delle trasformazioni che hanno segnato il divenire dell’umanità: come i venti spostano le nubi e fanno il cielo ora cupo e minaccioso, ora terso e sereno, come le correnti marine che rendono le acque chiare o torbide, calme o agitate, la storia non è altro che l’insieme delle dinamiche che muovono gli eventi, che legano in un unico grande percorso nomi, luoghi, date, vite. Studiare la Storia, significa comprendere il senso di queste dinamiche, coglierne le criticità, scorgere nel passato, non importa quanto lontano, i semi del presente.
Studiando, ho capito che noi esseri umani abbiamo uno strano rapporto con la Storia: in modo del tutto irragionevole tendiamo a pensare che ciò che troviamo intorno a noi nell’epoca in cui nasciamo non solo sia sempre esistito, ma sia sempre stato esattamente come noi lo conosciamo. Questo non ha senso perché razionalmente sappiamo che tutto è in continua evoluzione, proprio come lo siamo come singoli individui, eppure intellettualmente continuiamo a cercare il conforto di un’eterna immutabilità che, però, è soltanto ideale.
Se accettiamo l’idea del cambiamento, sarà più facile allora riconoscere che tutti noi, ciascuno nel luogo e nel tempo in cui vive, abbiamo la possibilità di cambiare il corso degli eventi, di non essere solo passivi spettatori, ma di diventare attori della nostra epoca
Quando penso a Sebastiano Bonfiglio, zio Seb, come ormai lo chiamo, quando parlo di lui e racconto la sua storia, penso prima di tutto ad una persona che ha scelto di essere attore del proprio tempo, che ha preso in mano la propria vita e l’ha messa a disposizione della comunità in cui ha vissuto, che ha fatto tutto ciò che era in suo potere fare per promuovere un cambiamento virtuoso, un’evoluzione della società che promuovesse maggiori diritti per le fasce della popolazione più povere e vulnerabili.
Tutte le volte che ripercorro la vicenda umana di zio Seb mi convinco sempre di più del fatto che sia stato un precursore, un uomo che ha anticipato e vissuto nel suo tempo i valori ed i principî sui cui si fondano la nostra Carta costituzionale e le principali Convenzioni internazionali per il riconoscimento e la tutela dei diritti umani.
La passione per lo studio che lo porta a conseguire, da autodidatta, la licenza di ingegnere agronomo e di maestro elementare, il desiderio di conoscere e confrontarsi con altre esperienze di impegno per la tutela dei lavoratori, che lo conduce prima a prendere contatti con i movimenti operai del nord Italia e poi con quelli degli Stati Uniti d’America, il bisogno di far conoscere, di condividere le proprie esperienze attraverso la stampa locale ed infine l’impegno politico con la candidatura a Sindaco del suo paese: sono questi i tratti essenziali che riassumono una vita forse breve ma certamente intensissima. Sebastiano è stato quindi tante cose insieme: sindacalista, pubblicista e cooperante ante litteram (durante la Grande Guerra, in Cirenaica, fonda una scuola per i bambini arabi, perché possano imparare a leggere e scrivere), infine anche esponente di spicco della politica locale.
Umanamente non so che tipo di persona fosse, la vita non mi ha dato l’opportunità di incontrare qualcuno che lo avesse conosciuto, che avesse condiviso con lui un tratto di strada su questa terra e, certamente, come tutti noi avrà avuto i suoi difetti, i suoi limiti e le sue debolezze, ma ciò che so è che è stato una persona che ha improntato la propria vita al servizio, una persona che ha speso tutte le sue energie e le sue capacità, in ogni circostanza, per offrire il proprio contributo per migliorare la condizione delle persone più fragili, per proteggerle, per offrire loro una possibilità di emancipazione.
Quale senso può avere ricordarlo a cento anni dalla morte? Io credo che il senso di celebrare questa ricorrenza sia mantenere vive due lezioni importantissime. La prima, che il mondo, così come noi, nati in Europa dopo la seconda guerra mondiale, lo abbiamo conosciuto, è costato alle generazioni passate lotte e sofferenze: se parliamo di diritti umani, di dignità della persona, di centralità per lo sviluppo e la vita di ciascuno di noi dell’istruzione e del lavoro, è perché tante persone, fin dalla fine del XIX secolo, hanno creduto che l’umanità meritasse di più di ciò che la vecchia organizzazione politica e sociale ottocentesca offriva. Sono persone che hanno saputo vedere oltre lo stato attuale delle cose, che hanno disegnato un nuovo orizzonte, la giustizia sociale, e hanno forgiato gli strumenti per raggiungerlo.
A tutti noi, eredi di chi ha lottato e conquistato traguardi importanti, spetta il compito di proteggere quel complesso di diritti che abbiamo sempre conosciuto e di farli vivere giorno dopo giorno, contrastando ogni possibile dinamica di prevaricazione.
La seconda, che la rassegnazione è un atteggiamento profondamente sbagliato in quanto contrario a quello che è il dovere principale di ciascun cittadino: offrire il proprio contributo al servizio della propria comunità; abbandonarsi all’idea che contro certi mali della nostra società non si possa fare niente significa autoderesponsabilizzarsi e, in ultima analisi, essere parte del problema.
Fare memoria, conoscere e rendere sempre viva la storia di Sebastiano Bonfiglio, come le storie di tutti coloro che, in ogni epoca, in tante parti del mondo, hanno speso la propria vita perché fossero riconosciuti e protetti i diritti di chi è più debole, serve a ricordarci che tutti possiamo essere parte di un cambiamento virtuoso, dobbiamo solo scegliere in che direzione guardare.