Silvana Foglietta: da trent'anni in cerca della verità
di Tea Sisto
“Avevo solo 15 anni, ma ricordo ogni minuto di quel giorno, il 7 febbraio del 1991. Esattamente trent’anni fa. Mia mamma era uscita nel primo pomeriggio per andare dal parrucchiere. Era tornata a casa con un look completamente diverso. Lei, bionda con i capelli lunghi, aveva un’acconciatura a caschetto color mogano. Non ti piaccio? Mi chiese. Ma che dici, mamma? Sei bellissima sempre, le risposi. Si cambiò d’abito, indossò un paio di jeans, una felpa e un giubbotto di pelle maschile. Era molto dimagrita. Poco prima delle 17 uscì di nuovo per andare ad aprire il negozietto di abbigliamento per uomo che aveva aperto per mandare avanti la famiglia. Non l’ho più rivista”.
Parla con un nodo alla gola Daniela Persano, figlia di Silvana Foglietta, vittima innocente della Sacra Corona unita, la donna che scomparve nel nulla a Ostuni proprio quel pomeriggio di trent’anni fa. Ogni tanto deve fermarsi per riprendere fiato, perché non riesce a trattenere le lacrime. Non è vero che il tempo guarisce tutto. Ci sono ferite insanabili.
“Ripensandoci, forse lei sentiva il pericolo e aveva voluto cambiare look con la speranza di non essere riconosciuta dai criminali della Scu che la braccavano”, continua Daniela. “Negli ultimi tempi era ansiosa. Aveva chiesto ad un’amica un favore: tenere lei tutto ciò che aveva di prezioso, qualche gioiello. Ma lei non volle. La sua preoccupazione aumentava. Qualche giorno prima della sua scomparsa, mi chiamò. Eravamo entrambe in casa. Vieni a vedere, affacciati alla finestra, mi disse. Abitavamo al terzo piano di una palazzina. “Vedi quella macchina? Sta lì, parcheggiata qua sotto, da una settimana”. Era un’auto scura vetri scuri. Sentiva che sta per accadere qualcosa di terribile, che era in pericolo. Era angosciata per noi figli”.
Poi ci furono altri segnali che solo in seguito quella figlia adolescente comprese, dopo la tragedia della sua vita e quella dei suoi fratelli. “Lei voleva scoprire da sola chi aveva ucciso il suo compagno il 9 marzo 1990, mio padre, Cosimo Persano, sì, l’esponente della Scu. Ne era innamorata. Per lui aveva lasciato Foggia, dove lo aveva conosciuto, per venire ad abitare a Ostuni. Una sera doveva uscire. Non lo faceva mai di sera, ma mi disse che doveva fare una cosa importante. Io rimasi casa con mio fratello e le due sorelline piccole. Prima di uscire, mi diede una lettera chiusa. “Se non torno entro mezzanotte, mi disse, devi consegnare questa lettera ai carabinieri”.
Ero spaventata, ma quella sera lei tornò prima della mezzanotte e si riprese la lettera”. Poi arrivò l’orrore del 7 febbraio 1991. Quel pomeriggio non arrivò mai nel suo negozietto. Un agguato. Fu sequestrata da un commando mentre era a bordo di una Renault 21, a Ostuni. Silvana Foglietta, che aveva appena 36 anni, lottò, chiuse tutti i finestrini, bloccò le portiere dell’auto. Ma gli aggressori sfondarono il parabrezza e se la portarono via. Il suo corpo non è stato mai ritrovato. La Renault fu invece rintracciata quasi subito. La figlia Daniela continua il racconto di quel giorno. “Come ho detto, io avevo 15 anni ed ero rimasta a casa, come sempre quando la mamma non c’era, per badare a mio fratello di 14 anni, alle mie sorelline di 3 anni e di nove mesi. Quando, dopo l’orario di chiusura nel negozio, non la vidi tornare, andai nel panico. Per un po’ l’aspettai sul balcone. Poi uscii, io, una ragazzina, in piena notte. Andai al negozio e non c’era, girai a piedi per mezza Ostuni, mi salì anche la febbre. Alla fine chiamai un avvocato, un amico di famiglia. Andammo insieme a chiedere aiuto alle forze dell’ordine. Ma dovemmo aspettare, come per legge, 48 ore, prima di presentare una denuncia formale di scomparsa.
Poi l’incubo continuò. Eravamo troppo piccoli e intervenne in tribunale dei minori. Volevano dividerci. Ma mi opposi minacciando di farmi del male. Alla fine una casa famiglia ci ospitò tutti e quattro. Solo in seguito le mie sorelline più piccole furono date in adozione a brave famiglie, ma le posso vedere, incontrare. Io continuo a occuparmi di mio fratello che da quel trauma non si è mai ripreso”. Daniela ha la voce rotta dal pianto. Si ferma. Rivivere quei momenti è straziante. Riesce a riprendersi e a raccontare ciò che accadde negli anni successivi. Qualche anno dopo la chiamarono i carabinieri per il riconoscimento di un corpo. Ma non era quello della sua mamma. Ogni cinque anni, spiega, la chiamano da Roma per chiederle se ha novità.
“Come posso avere novità? Mi chiameranno anche quest’anno di certo. Tanto tempo fa i giornali parlarono di un pentito della Scu che aveva dichiarato che era inutile cercarla perché mia mamma, Silvana Foglietta, una donna forte, bella e dignitosa, era stata uccisa e bruciata nella calce. Ma quel pentito non ha mai detto dove si trova il suo corpo e tanto meno chi è stato il mandante. Ho vissuto questa tragedia in prima persona ed anche io sono stata testimone di giustizia. Quella lettera, che la mamma mi aveva lasciato quella sera, l’ho aperta e l’ho letta. L’ho poi consegnata al procuratore Leonardo Leone De Castris. C’era il nome del mandante, Ciro Bruno, che ora non c’è più. Sono stata testimone in dodici ore di processo. Ho riconosciuto quei volti. Ma tutti mi dicevano di mettermi l’anima in pace perché mia mamma non sarebbe più tornata da noi figli. Affetto e stima li abbiamo ricevuti da tanti quando eravamo molto piccoli. Poi non più. Siamo stati dimenticati”.
Il tempo è trascorso inesorabile. “Molti anni dopo la scomparsa della mamma, qualcuno mi ha detto che potevo ottenere agevolazioni, un lavoro, qualcosa per la mia famiglia, fratello e sorelle dallo Stato perché la mamma era vittima di mafia. Ma all’epoca avevo solo 15 anni e nessuno mi aveva spiegato nulla. Nessun sostegno. Ho presentato tempo fa una domanda da sola al ministero, in prefettura. Ma erano trascorsi troppi anni. Tempo scaduto”.
Daniela, però, non pensa a quelle agevolazioni. Ha scritto un libro. Spera di trovare un editore che lo pubblichi non con il suo nome, ma con uno pseudonimo, per tutelare i suoi figli. “Dimenticare significa offendere il vissuto di una persona, perché ogni storia di mafia è un capitolo a sé, non sono tutte uguali. Ogni storia è da raccontare. Il fulcro di questo libro è Silvana Foglietta, questa donna forte che, per amore di un uomo, ha fatto una scelta sbagliata ed è diventata vittima innocente”, dice Daniela. “Da trent’anni chiedo giustizia. Da trent’anni chiedo di sapere se i suoi resti sono in un pozzo, sotto un masso, buttati in mare. Ho ancora gli incubi, la sogno. Non mi rassegno. Le tragedie le devi vivere per capirle”.
Daniela vive nella memoria della madre e chiede rispetto e solidarietà dalla stessa comunità in cui vive.
E’ giusto raccontare la mafia, ma bisogna anche tener conto dello strazio delle vittime della stessa mafia. E io chi sono? Rimango sempre la figlia di Persano e che ha fatto scelte sbagliate? Io sono figlia soprattutto di Silvana Foglietta, di questa donna straordinaria che è stata dimenticata. Nonostante un’infanzia e un’adolescenza terribili, devo al suo insegnamento se ho letto libri tutta la vita, se ho studiato, se mi sono laureata, se mi piace scrivere. Il direttore di un giornale di parrocchia di Ostuni, che mi lascia spazio per articoli, mi ha detto: tu scrivi con il cuore e hai una grande resilienza. Ma il dolore non mi ha mai lasciato.