Marcella, vittima di mafia in attesa di giustizia da 30 anni
di Lorenzo Frigerio
Non tutte le storie possono essere raccontate senza partecipazione emotiva, questa è una di quelle: è la storia di una famiglia che ho imparato a conoscere negli ultimi dieci anni e che, poco alla volta, è diventata parte della mia vita.
Questa è una storia di donne che si sono misurate con il pregiudizio di una comunità, hanno sofferto la cattiveria degli esseri umani, fino all’estrema violenza subita e hanno poi faticosamente cercato un riscatto sociale, ma soprattutto hanno chiesto giustizia, anche quando era impossibile pronunciare questa parola.
Una brutale esecuzione
La prima donna di questa storia si chiamava, anzi si chiama Marcella Di Levrano.
Un’esistenza problematica la sua, a causa della tossicodipendenza che aveva incatenato i suoi giorni, come quelli di altri giovani alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Marcella per sedare la bestia che la consuma dentro, deve fare quotidianamente ricorso ad una mortale dose di veleno. La droga costa però e lei ha una sola moneta da offrire: il proprio corpo che cede in cambio degli stupefacenti.
Un fatto straordinario cambia il corso degli eventi: la nuova vita che Marcella scopre di nutrire dentro di sé e di cui vuole farsi carico responsabilmente in solitaria, visto che il padre non intende avere una famiglia con lei. La gravidanza prima e la nascita di una bella bambina poi portano il sereno in una vita in tempesta.
Per amore della figlia appena avuta, la giovane madre decide di rompere con il suo passato raccontando alla giustizia quello che, frequentando le case dei boss della Sacra Corona Unita, ha appreso sulla potente organizzazione mafiosa allora in piena espansione. Incontra quegli uomini in ragione della sua bellezza: i mafiosi non vedono in lei un potenziale pericolo, ma solo una bella donna, lo strumento del proprio piacere, da ricompensare con quella droga che in quegli anni vanno distribuendo in tutto il territorio, per arricchirsi e diventare potenti.
Nel frattempo – siamo a giugno del 1987 – la Di Levrano inizia a parlare con alcuni funzionari della Polizia di Stato, dove nulla di quello che racconta con dovizia di particolari viene messo a verbale, ma soltanto registrato, per paura di ritorsioni. Marcella ha paura, perché se gli uomini pericolosi che frequenta dovessero sapere quello che sta raccontando alla Squadra mobile di Brindisi prima e di Lecce poi, la sua fine sarebbe segnata. Omicidi e relazioni, estorsioni e traffici di droga: tutto finisce in quelle registrazioni e per qualche anno il segreto regge. Tecnicamente la donna è una confidente delle forze dell’ordine, ancora non sono entrate in vigore le norme che regolano l’apporto alle indagini di collaboratori e testimoni di giustizia. Per questo Marcella non riceve alcun tipo di tutela.
Intanto, con il finire degli anni Ottanta maturano i tempi per la maxi inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia retta da Cataldo Motta, un magistrato di valore che ha scritto la storia del contrasto ai clan mafiosi in Puglia: la Sacra Corona Unita viene portata alla luce per la prima volta, con la puntuale ricostruzione della catena gerarchica e l’indicazione meticolosa dei traffici di morte e dei profili dei reati collegati.
Purtroppo quando viene depositata a disposizione delle parti la monumentale ordinanza di rinvio a giudizio, il segreto su quella donna che aveva dato una mano rilevante nelle indagini viene meno. I boss temono che Marcella possa andare in aula per ripetere quello che ha dichiarato ai poliziotti e per questo la fanno sparire seduta stante.
Il suo corpo viene ritrovato il 5 aprile 1990 in un bosco tra Mesagne e Brindisi. Uccisa a colpi di pietra, per sfregiarla in vita e anche dopo.
La ricerca di giustizia
Sono passati trent’anni e oggi in un provvedimento della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, depositato nel dicembre del 2019 possiamo leggere parole indubitabili su quel terribile omicidio:
Si è accertato come la collaborazione di Marcella di Levrano, che non a caso veniva uccisa pochi giorni dopo il deposito dell’ordinanza di rinvio a giudizio che dava conto delle sue dichiarazioni e le rendeva di pubblico dominio, è stata sicuramente la causa della sua morte.
È un passaggio fondamentale quello ricostruito dal magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, Alberto Santacatterina, nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta per omicidio che ha interessato Eugenio Carbone, Massimo Pasimeni, Giovanni Donatiello e Giuseppe “Pino” Rogoli, il padre fondatore della SCU.
Nessun processo potrà essere celebrato, visto che Carbone, individuato come l’esecutore dell’omicidio della Di Levrano è stato a sua volta ucciso nel 2000 e non sono stati trovati i riscontri per gli altri indagati, individuati come mandanti: «E se è ragionevole ritenere che il suo omicidio fosse stato disposto, ordinato o comunque autorizzato dall’associazione mafiosa, che si vedeva compromessa dal suo comportamento, non è stato tuttavia possibile accertare se e da quale dei componenti all’epoca il vertice dell’associazione, sia stato dato mandato di procedere alla sua uccisione».
A prescindere dagli esiti, finalmente, è stato scritto in un atto ufficiale che Marcella è vittima di mafia, assassinata per il coraggio che ha dimostrato nell’infrangere la consegna del silenzio, violando la regola dell’omertà imposta dalla SCU.
Il magistrato si è avvalso delle dichiarazioni di ben sei collaboratori di giustizia (Tommaso Belfiore, Massimo D’Amico, Leonardo Greco, Giuseppe Leo, Ercole Penna e Gianfranco Presta), oltre a quanto già contenuto negli atti dei due maxi processi alla SCU, per certificare che le rivelazioni della donna le furono fatali: «Si può affermare con certezza, sia per quanto dichiarato da numerosi collaboratori di giustizia, sia per quanto emerso nel corso dei due maxiprocessi leccesi, come la causa della morte di Marcella Di Levrano sia da individuarsi senza ombra di dubbio nella collaborazione da lei prestata sin dal lontano 1987 con la Squadra mobile della Questura di Lecce».
Questo provvedimento giunge al termine di tre decenni passati in gran parte nel silenzio di inquirenti e forze dell’ordine, di familiari e opinione pubblica.
In assenza di atti della magistratura e di indagini delle forze dell’ordine, per lungo tempo è calato il silenzio su Marcella Di Levrano, di lei non si è potuto parlare, perché di quella vita segnata dalla tossicodipendenza e dalla frequentazione con i boss della SCU tutti sembravano dover vergognarsi.
Innanzitutto la famiglia: la madre, le due sorelle, la figlia di Marcella che hanno vissuto per tutti questi anni con un ricordo struggente e malinconico, ma anche sbiadito della loro figlia, sorella, madre. Il dolore era ed è ancora troppo forte e quindi bisogna cercare di dimenticare se possibile.
E poi la pubblica opinione: sempre pronta a giudicare negativamente le persone vittime della tossicodipendenza, tanto più se coinvolte in giri criminali, non ha risparmiato cattiverie e pregiudizi verso “quella tossica” e la sua famiglia. Immaginiamoci solo per un momento cosa può aver voluto dire questa storia in quegli anni, in cui i ragazzi morivano per strada, in un contesto sociale, come quello della provincia brindisina, allora chiuso e bigotto quasi per reazione.
Con alterne e complicate vicende, che prima o poi andranno scritte per documentare la condizione femminile di quegli anni, per sottolineare il riscatto sociale che hanno incarnato e soprattutto per raccontare la ricerca della verità, le donne della famiglia Di Levrano hanno voluto e provato a costruire per sé e per i propri affetti una vita lontana da quei luoghi, da quella Puglia tanto amata, eppure così odiata per aver permesso che Marcella fosse loro strappata.
Il dolore di una madre, il dolore di tre madri
Il filo rosso che accompagna questa storia è quindi il dolore: il dolore di una madre, anzi il dolore di tre madri.
La prima madre è Marcella: va incontro al suo tragico destino solo per amore della figlia, per costruirle un futuro migliore.
La seconda è Marisa Fiorani, la mamma di Marcella: prima tenta di sottrarre la figlia al giogo della droga, bussando inutilmente alle porte di istituzioni e forze dell’ordine, e ora si batte perché venga riconosciuto alla figlia lo status di vittima di mafia.
La terza e ultima madre è la figlia di Marcella, che ha dovuto fare i conti con un immenso dolore e oggi si trova anche lei a dover crescere una bellissima bimba, nelle difficoltà attuali di una società che non ti regala nulla.
Il dolore di queste tre madri è entrato prepotentemente nella mia esistenza poco alla volta, senza fare rumore, come è avvenuto per le storie di altri familiari di vittime, che considero oggi amici e familiari al pari di Marisa.
Il primo fermo immagine che conservo di questa donna forte di Puglia è legato alla giornata della memoria e dell’impegno di Napoli del 2009. La ricordo, in compagnia del marito Piero, seduta in disparte in un vagone del treno notturno che Libera aveva organizzato dalla Lombardia alla Campania. Fu quella una notte passata soprattutto ad inseguire i più riottosi all’ordine da una carrozza all’altra, ma mi colpì l’atteggiamento di questa signora che non si scomponeva per nulla di fronte alle intemperanze degli studenti, pur avendo diritto di dormire in santa pace. Anche lei era agitata, era la sua prima partecipazione alla giornata e ad accompagnarne i primi passi in quel di Napoli saranno Alex Zanotelli e Rita Borsellino.
Non potevamo sapere allora io e lei che, negli anni a venire, Marisa sarebbe divenuta testimone come familiare di vittima in moltissimi incontri con studenti. Soprattutto non potevamo immaginare quale empatia sarebbe stata in grado di evocare nel rapporto con i giovani, raccontando semplicemente la storia di una figlia sfortunata che era stata uccisa brutalmente, dopo aver deciso di cambiare vita, per l’amore della sua piccola.
Delle tante occasioni vissute insieme nelle scuole, ne rammento una in particolare, in un istituto della provincia di Lecco, accompagnati dall’amico Paolo Cereda, indimenticato referente di Libera in quel territorio, purtroppo scomparso nel 2017. Ricordo che, mentre questa “madre coraggio” leggeva le pagine del diario di sua figlia ai presenti, io e Paolo ci guardavamo stupiti dalla potenza del suo messaggio e soprattutto della magia che si era stabilita tra lei e gli studenti, tanto che alla fine dell’incontro non volevano lasciarla andare, con la scusa di una domanda, di un saluto. Scene che si ripetono ogni volta ormai che Marisa visita una scuola.
L’altro fermo immagine è legato all’inserimento del nome di Marcella nell’elenco delle vittime innocenti. In quell’elenco, va ricordato, non si trovano solo quanti sono riconosciuti vittime per provvedimento amministrativo o sentenza giudiziaria. Libera ha sempre esercitato una sua doverosa discrezionalità, includendo i nomi di persone uccise prima del 1 gennaio 1961 – rigido criterio temporale che la legge in vigore istituisce per l’inizio del riconoscimento dello status di vittima – o quelli le cui storie sono in via d’accertamento giudiziario e/o storico.
Nel 2014 fu deciso durante la periodica revisione dell’elenco che era giunto il momento giusto per Marcella. La prima volta in cui fu letto fu a Milano il 19 marzo, in occasione del riposizionamento, in via Morozzo della Rocca, della targa in ricordo dell’uccisione di Giorgio Ambrosoli. Al leggio si alternavano per la lettura studenti, autorità, rappresentanti delle associazioni, familiari stessi. Quando arrivò il turno di Marisa, senza che fosse stato prestabilito, ma semplicemente per il normale alternarsi dei lettori, tra i nomi che le toccò di pronunciare vi fu proprio quello di Marcella..
Una sorpresa da mozzare il fiato, a lei e a quanti di noi sapevano della casualità o provvidenzialità del fatto, alla quale si aggiunse subito, due giorni dopo, l’orgoglio di rileggere il nome della figlia davanti a Papa Francesco che, in occasione del 21 marzo, incontrò tutti i familiari delle vittime nella chiesa di San Gregorio VII a Roma. In quel caso fu preordinato, ma non meno emozionante per quella donna, costretta per anni a tacere il nome di sua figlia.
Da tempo Marisa è di famiglia, soprattutto da quando i miei genitori se ne sono andati: possono esserci giorni in cui ci sentiamo al telefono, ma ce ne sono altrettanti in cui ci parliamo a distanza, senza bisogno di parole. In queste ultime settimane poi che il coronavirus ha stravolto la vita di tutti, il suo silenzio parla continuamente e rompe fragorosamente gli argini.
Attende Marisa, con ansia amplificata dalle restrizioni imposte dalla pandemia, che il gip si pronunci sulla richiesta d’archiviazione, per dare seguito agli ulteriori passi stabiliti insieme alla sua legale, la vicepresidente di Libera, Enza Rando che segue la vicenda da anni perché sia restituita la giusta dignità a Marcella Di Levrano. Fino ad oggi l’interpretazione burocratica delle norme ha provocato per due volte il respingimento da parte del Ministero dell’Interno del riconoscimento di vittima di mafia.
A prescindere dalle decisioni del gip, già basandosi sulle inequivocabili indicazioni contenute nella richiesta d’archiviazione della DDA di Lecce, un eventuale terzo provvedimento del Ministero dell’Interno, questa volta si auspica positivo, certamente non colmerebbe il vuoto di tre decenni, né offrirebbe ristoro del danno subito.
Forse però cambierebbe la direzione della battaglia fin qui condotta e sicuramente potrebbe dare un senso al dolore di una madre, anzi al dolore di tre madri.