Pompea, Lucia e Donata: tre donne che sognavano un futuro libero, felice e indipendente.
di Gabriella Ciccarone del Presidio di Libera Ceglie Messapica
Il 19 maggio 1980 tre giovani donne di Ceglie Messapica (BR) vennero coinvolte in un tragico incidente stradale sulla superstrada Taranto-Brindisi. Persero la vita Pompea Argentiero (16 anni), Lucia Altavilla (17) e Donata Lombardi (23), braccianti reclutate per la raccolta delle fragole al di fuori del Collocamento tramite il caporale. Viaggiavano su un Ford Transit da 9 posti dove erano stipate - forse in 16 o più - sedute le une sulle gambe delle altre. Lo schianto le colse nella loro fragile insicurezza. A distanza di 11 anni dal 1980 un copione con troppi punti in comune si riproponeva, quando all’alba del 6 settembre del 1991 anche Cosima Valente (36 anni) e Domenica Apruzzese (47) morirono su un pulmino mentre andavano a lavorare.
All’epoca, durante le commosse e partecipate manifestazioni organizzate dai sindacati molti si chiesero “Abbiamo fatto abbastanza per eliminare questa brutale forma di sfruttamento?”. A distanza di 39 anni, ce lo chiediamo ancora e continuiamo a dirci, come allora, “questa società va cambiata!”.
È il motivo per cui noi del Presidio di Libera Ceglie Messapica abbiamo voluto dedicare il nostro impegno alla ricostruzione, attraverso un lavoro collettivo, di una complessa - benché ritenuta minore - trama storica, perché oggi di Pompea, Lucia, Donata, Cosima e Domenica rischiamo di perdere la memoria e perché ancora si muore di caporalato. Un lavoro collettivo durato anni durante i quali si è discusso in manifestazioni pubbliche di: “Lavoro, tra vecchio e nuovo caporalato. Braccianti, donne e migranti, raccontano” nel novembre 2015; “Ponti di memoria luoghi d’impegno” nel marzo 2016; “Intitolazione di cinque vie”, richieste formalmente al Comune nel 2016; “Sulle strade del 21 marzo” nel 2018 quando don Luigi Ciotti ha incontrato i familiari delle vittime, gli studenti e i cittadini.
Un lungo percorso, dunque, che si è concretizzato nella pubblicazione tra il 2018 e il 2019 delle biografie delle cinque donne nel libro La terra [che] non tace. Storie di braccianti agricole di Ceglie Messapica vittime del caporalato, a cura di Gabriella Ciccarone, Vita Maria Argentiero ed Emilia Urgesi. Storie di genere: di donne dignitose, capaci di amare e farsi amare, come testimoniano le parole dei familiari. Storie di sfruttamento: frutto marcio di un sistema illegale di reclutamento e di organizzazione della manodopera, contiguo a quello mafioso se non apertamente mafioso. Storie di impegno: quello dei tanti che hanno contribuito perché i nomi di ognuna delle cinque donne non vengano dimenticati. “L’ingiustizia non è mai così inaccettabile come quando s’incarna nella storia delle persone, quando calpesta, offende o tronca le loro vite - scrive don Ciotti nella prefazione, rivolgendo il suo sguardo attento alle donne che “sarebbe più giusto dire uccise”. Accidentali? No. Le loro vicende non sono state accidentali - come spesso si è voluto far credere - ma l’effetto tangibile di un meccanismo ben congegnato di sfruttamento.
Ancora oggi i diritti continuano ad essere barattati per privilegi. Il caporale vecchio stile è stato affiancato dal moderno manager che ha dismesso panni rozzi e rustici per indossarne altri più eleganti, trasformandosi in "agenzia interinale con sede a Milano". Il sistema si è fatto più sofisticato. Nel frattempo sono arrivati a frotte lavoratori extracomunitari e comunitari con la loro disperazione, da sfruttare fino all’inverosimile. Il racket delle donne lavoratrici controllato anche dalla Scu - la mafia pugliese - ha subito un’inflessione, ma la crisi degli ultimi anni ha rimesso sul mercato le nostre braccianti.
Pompea, Lucia e Donata partivano alle 4 del mattino e rientravano tra le 18 e 19 della sera, rimanevano fuori di casa ogni giorno anche 14-15 ore. Guadagnavano da 6-8mila lire a fronte di una paga sindacale di 27mila lire. Gli agrari tuttavia pagavano molto meno per la giornata - 16/18mila lire - mentre una quota consistente la tratteneva il caporale. Schiave-ragazzine non potevano accampare alcun diritto. Il giorno dell’incidente non risultavano assunte, l’indomani però i datori di lavori si affrettarono a regolarizzarle retroattivamente. Pesanti orari fuori di casa da prima dell’alba a dopo il tramonto, ingaggi abusivi, bassi salari al di sotto delle tariffe contrattuali, trasporto improvvisato, costoso ma insidioso: queste le condizioni di lavoro cui erano giornalmente costrette.
È notte quando il 19 luglio si svegliano alle 3,00. Anche quel giorno accendono le luci al buio, preparano in fretta le gavette con il cibo ed escono di casa. Donata dà un ultimo sguardo alla sua piccola Isabella facendo piano per non svegliarla, la affida alla nonna, forse riuscirà a vederla nel tardo pomeriggio, se sarà ancora sveglia. Raggiungono le altre ragazze, mamme, anche nonne e attendono ai crocicchi finché il bagliore dei fari del pulmino illumina la strada. Il rito giornaliero si consuma. Gli scherzi e le battute con le amiche, troppo vicine per non prestare loro attenzione, qualche istante di sonno strappato, il lungo viaggio, tre ore all’andata e tre al ritorno. Poi il lavoro, faticoso, ininterrotto fino alle alla pausa per mangiare e poi ancora lavoro. Infine si risale sul pulmino per il rientro, ma quella volta non per tutte.
Nei racconti dolorosi dei familiari, grazie ai quali è stato possibile ricostruire le storie di ognuna, è tanta l’umana bellezza che traspare. Pompea, Lucia, Donata lavoravano duramente per dare il proprio contributo alle famiglie. “Sognavano un futuro libero, felice e indipendente”, volevano costruire con le proprie mani una vita dignitosa. Mentre dialoghiamo, chi tra i familiari prova a mettersi nei loro panni immagina le parole che ci avrebbero rivolto: “Lottate per i diritti dei lavoratori, per migliorarne le condizioni, chiedete più controlli, chiedete la legalità e fate in modo che il nostro sacrificio non sia stato vano”.