I ragazzi dei Sette Palazzi. Il ricordo di Antonio Landieri
di Mariano Di Palma
Siamo in sette. Ci puoi contare. Siamo cresciuti in un angolo della periferia nord di Napoli, a Scampia. Siamo irti, protesi sempre verso l’alto, tentando di sfiorare e stringere le nuvole sparse nelle giornate di sole. Quando vivi immerso nel grigio del cemento di periferia, a volte, l’unica cosa che resta è il colore azzurro del cielo che si specchia nel mare di questa città. Da quando siamo nati, siamo sempre sette. Disposti in fila ci guardiamo le spalle l’uno con l’altro, che si sa è sempre meglio guardarsele; qui non si sa mai quello che può succedere. Quando ci chiamano, chiamano sempre tutti e sette: i “Sette Palazzi” dicono e lo fanno soltanto per affibbiarci un’etichetta addosso. Siamo stati costruiti per essere alloggi popolari, disposti ai lati di vialoni dimenticati, incastonati a fianco a loculi di cemento denominati condomini. Tra le nostre mura abitano in migliaia in un quartiere senza servizi, senza possibilità, ostaggio di pochi criminali. Dalle nostre terrazze si può osservare tutto: così alti da poter osservare il quartiere, il moto andante delle auto e delle moto che arrivano sotto i nostri condomini. È strano: qui siamo in periferia; c’è un sacco di povertà, eppure qui sotto c’è sempre un gran traffico. Centinaia di persone che vengono e che vanno di giorno e di sera. Arrivano con auto, bus, motociclette: si fermano sotto i palazzi, acquistano bustine a volte di colore bianco, altre volte verde, altre volte marrone chiaro. A seconda della bustina viene fornito un kit: siringhe, lacci emostatici, cucchiaini, fette di limone. Passano in fila, acquistano in gran velocità e scappano via. Dall’altezza dei nostri palazzi osserviamo tutto; così tanto che uomini col binocolo salgono di frequente. Non osservano stelle, ma monitorano strade, soprattutto se di notte. Riconoscono le auto e le moto. Quando vedono da lontano vetture che lampeggiano, quando sentono sirene avvicinarsi in velocità, urlano da sopra i tetti; in quel momento tutto si chiude in fretta e furia; si barricano gli scantinati e i garage; partono motorini all’impazzata e in ogni direzione. Quando invece ci sono mezzi ritenuti avversari si cambia strategia: si scende armati, si utilizzano le auto come fossero trincee, inizia la faida. Le voci degli abitanti sotto ogni palazzo lo dicono chiaramente che la “guerra è arrivata fino qui sotto”. I nostri abitanti - gli abitanti dei “Sette Palazzi” - sono persone come tutte le altre: come quelle di tutti gli altri quartieri della città. La mattina prendono l’R5 per andare a lavorare in centro assieme ai tossici venuti ad acquistare la droga e fanno molto spesso un lavoro umile e faticoso per mantenere le loro famiglie con dignità. I ragazzi frequentano le scuole del quartiere: molti studiano con la voglia di emergere e scappare via, altri si arrendono o di studiare non hanno voglia e fanno lavori altrettanto umili e precari. I giornali usano la parola “Scampia” come se non fosse un quartiere di Napoli, ma un non-luogo, un’aberrazione, un inferno separato dalla città. Non hanno invece neanche la minima idea della dignità, del desiderio di libertà che abita tra queste mura. Sono ostaggio di poche, pochissime famiglie che fanno affari con la droga nel quartiere e che con la loro violenza impediscono a tutti una vita serena, felice, normale.
Da quassù come degli dei, osserviamo la quotidianità spasmodica di questo circondario. Da un po’ di tempo il rumore delle pistole, le parole violente e vendicative, la sete di affari e di potere, e se magnà tutto cos’ ha preso la forma della brutalità, del dolore, della paura. Abbiamo la sensazione continua di esserci trasformati in una prigione, più che in un lotto di condomini popolari. I “ragazzi dei Sette Palazzi” li abbiamo visti crescere tutti quanti. Qui si cresce assieme, uno sopra all’altro: buoni e cattivi, creativi e annoiati, faticatori e svogliati, onesti e criminali. E il sangue versato non ce lo dimentichiamo affatto; quello no, soprattutto quello degli innocenti, come Antonio. E chi se lo scorda. Andava piano anche se voleva correre quando giocava; allegro e felice pur con le sue difficoltà motorie. A venticinque anni, cresciuto nel quartiere e con tutta la vita davanti, uno ha sempre un cassetto pieno di sogni difficili da realizzare; chissà quali erano quelli di Antonio: innamorarsi, costruirsi una vita, scappare via dal posto dove si è vissuto, darsi una possibilità in un posto migliore, o magari restare e sperare che il tuo quartiere possa un giorno migliorare, cambiare. Poco importa: quando c’è la guerra non ci sono regole. Ci sono solo sogni da calpestare.
E questa è la guerra di periferia; questa è una guerra per la droga, per i milioni che frutta lo spaccio dell’eroina; una guerra tra pochi il cui prezzo lo pagano in tanti. Questa è la “faida di Scampia”: clan rivali che si fronteggiano da mesi per il controllo delle piazze di spaccio. E noi siamo qui con le mura colorate da frasi piene di odio con le bombolette spray, con i colonnati perforati dai colpi di pistola. Siamo qui a osservare l’inferno creato dagli uomini, solo per la sete di denaro e di potere. E c’eravamo, si che c’eravamo quel 6 novembre. Li abbiamo visti arrivare dall’alto; correre lungo i vialoni con i motorini; li abbiamo visti avvicinarsi armati e sparare. Li abbiamo visti inseguire e ferire alle gambe chi è riuscito a scappare; tutti, quasi tutti. Tranne Antonio Landieri. Scambiato, per uno di quelli che spacciava la droga nel rione, colpito per una vendetta trasversale, Antonio non poteva scappare: andava piano anche se voleva correre. Così è stato raggiunto ed è stato ucciso. Tremendamente, brutalmente, senza senso. Come questa guerra.
Il colore del sangue, visto dall’ultimo piano, non mai è rosso. Quasi sempre appare nero mentre si forma la pozza attorno al corpo. Quando scendi le scale disperata per abbracciare tuo figlio, puoi vederlo dalle finestre il nero che prende colore e piano - piano si accende di rosso. Rosso il sangue che sale alla testa, come la rabbia che hai in corpo perché hanno tolto la vita a chi hai amato come figlio e come fratello; rosso come l’ingiustizia di una vita spezzata per una guerra senza ragione; rosso come il dolore, come le ferite che non guariscono mai e che ogni anno, il 6 novembre, riprendono costantemente a sanguinare copiosamente.
Ad Antonio, le mura dei palazzi e chi ci ha vissuto dentro in qualche modo avranno forse sentito in un primo momento di dover chiedere scusa: se non fosse stato dei “Sette Palazzi”, se non fosse stato di “Scampia”, se avesse abitato in qualche altro posto del Paese, forse avrebbe avuto possibilità che qui neanche si riescono a sognare. Poi qualcuno, in tanti forse hanno capito una cosa: la colpa non è di questi condomini, non è di questo quartiere e dei suoi palazzi. La colpa è di chi ha lasciato che avvenisse scientificamente questa guerra; di chi non ha costruito possibilità, strutture, servizi, opportunità; la colpa è di chi ha utilizzato l’etichetta “Scampia” per marginalizzare, giudicare e isolare sistematicamente il quartiere e lasciarlo nelle mani di criminali efferati e senza scrupoli. Quando questa verità ha iniziato a trasudare oltre queste mura ed è entrata nella testa di tanti, qualcosa è cambiato. Braccia, teste, corpi hanno iniziato a muoversi a darsi da fare in memoria di Antonio Landieri: una rete di realtà, dei campi da calcio per i ragazzi del quartiere, un progetto editoriale, una infinità di sogni e iniziative per spezzare la solitudine, per smettere di far essere questi posti la periferia di qualcos’altro, l’inferno dei viventi, il regno di qualche clan; per liberare Scampia da ogni etichetta e farla diventare un quartiere come tutti gli altri di Napoli: un luogo in cui studiare, lavorare, uscire, giocare, crescere ed essere felice sia alla portata di tutte e di tutti. E chest’è. Siamo i “Sette Palazzi”. Ci portiamo appiccicati sulle nostre pareti di cemento e di muffa la memoria di Antonio. Siamo i “Sette Palazzi”, siamo in un posto di Napoli in cui può cambiare tutto, se davvero lo si vuole. Siamo i “Sette Palazzi”. Da qui sopra si vede ancora tutto. E oggi, 6 novembre, ci sono un sacco di nuvole tristi e nere in cielo, cariche di pioggia e di lacrime amare. E allora noi ci allunghiamo ancora un po’, verso l’alto, per diradarle; così che torni un po’ di azzurro in mezzo a tutto questo grigiore.