18 aprile 2011
Reggio Calabria (RC)

Tita Buccafusca

Tita era più che certa di quale sarebbe stata la reazione della famiglia di suo marito alla sua decisione. Talmente certa da chiedere ai carabinieri che la stavano ascoltando di verbalizzarlo subito, per mettere al riparo se stessa e suo figlio dal tentativo di sminuire l'importanza di quella scelta dirompente.

Voglio preliminarmente specificare che nella famiglia di mio marito da tempo hanno insinuato che io sia pazza e sicuramente mi aspetto che sosterranno ciò quando apprenderanno la notizia della mia scelta di cambiare vita”. Tita era più che certa di quale sarebbe stata la reazione della famiglia di suo marito alla sua decisione. Talmente certa da chiedere ai carabinieri che la stavano ascoltando di verbalizzarlo subito, per mettere al riparo se stessa e suo figlio dal tentativo, che di sicuro avrebbero fatto, di banalizzare, infangare e depotenziare quella scelta dirompente. Perché Tita li conosceva quei metodi. Lei in quell’ambiente ci era cresciuta, ne era stata parte. Lo aveva fatto per amore. E ora, per amore, aveva scelto di uscirne. 

Santa Buccafusca era nata a Nicotera Marina, in provincia di Vibo Valentia, il 7 febbraio del 1974. La sua era una famiglia umile e onesta, la cui unica fonte di sostentamento era il mare. Un contesto difficile quello di Nicotera, condizionato da una presenza asfissiante della ‘ndrangheta. Qui, in questo lembo di terra affacciato sul mare, alcune delle più potenti famiglie di mafia calabresi esercitavano un dominio incontrastato. I tre scioglimenti del Consiglio comunale decretati anni più tardi - nel 2005, nel 2010 e nel 2016 - ne sarebbero stati l’ennesima certificazione, dimostrando una volta di più la potenza delle ‘ndrine e la loro capacità pervasiva. Di una in particolare, quella dei Mancuso. Fu uno di loro che, nel 1989 e ancora quindicenne, Tita - così la chiamavano tutti - conobbe. Pantaleone Mancuso, alias Luni Scarpuni, aveva di fronte a sé una strada spianata e un futuro già segnato, che, nel giro di pochi anni, lo avrebbe portato a diventare uno dei più influenti capimafia della ‘ndrangheta calabrese. Tita se ne innamorò perdutamente e legò indissolubilmente a quest’uomo la sua vita e il suo destino. Al punto di decidere di aspettarne pazientemente la scarcerazione per sposarlo. E questo nonostante l’amore per Luni avesse sin da subito cominciato a corrodere dal di dentro la vita sua e quella della sua famiglia: prima l’arresto del padre, coinvolto da Mancuso nei suoi traffici illeciti, poi la morte di sua madre e del suo amatissimo fratello. Ma niente, la mente di Tita era offuscata da quell’amore tossico. Così, negli anni della detenzione di Luni, lei piano piano scivolò in una vita triste e cupa, preda di una depressione violenta, che la costrinse all’uso dei farmaci e a due diversi ricoveri in ospedale per “reazione paranoide acuta”. Era il dicembre del 2008. Intanto lei continuava a fare la sua parte, completamente calata nel ruolo della donna del boss. A lei erano intestate società e conti correnti; dalla sua pescheria - avrebbe raccontato anni dopo un pentito - transitavano i soldi del traffico di droga. 

Pochi mesi dopo quei ricoveri, evidenti segnali del malessere che ne opprimeva la mente, Mancuso lasciò il carcere e trovò Tita ad aspettarlo. I due si sposarono e nel 2010 quell’amore tossico, che aveva avuto in Luni il suo unico oggetto, generò un bambino, Salvatore. Un nuovo oggetto d’amore per Tita. Stavolta però, di un amore puro, che non accetta limiti e per il quale si è disposti a mettere in discussione tutto: l’amore di una madre per suo figlio. E fu proprio questo amore a farle aprire gli occhi. Improvvisamente Tita si rese conto che quella vissuta sino ad allora non era la vita che avrebbe desiderato davvero e, soprattutto, che avrebbe desiderato per suo figlio. Lo capì ancora meglio quando, il 12 marzo del 2011, a San Calogero, non lontano da Nicotera, fu ammazzato brutalmente a colpi di fucile a pompa Vincenzo Barbieri, potente boss del narcotraffico legato alle cosche vibonesi, per conto delle quali trattava direttamente con i cartelli sudamericani. Tita conosceva quelle dinamiche e capì immediatamente che quell’omicidio avrebbe potuto determinare - come poi accadde - una guerra feroce. 

La scelta di collaborare

Ebbe paura Tita, per sé e per suo figlio. Così, due giorni dopo, il 14 marzo, con in braccio il bambino, bussò alle porte della caserma dei carabinieri di Nicotera, chiedendo di parlare con un magistrato. Aveva fatto la sua scelta: avrebbe raccontato tutto ciò che sapeva, assumendosi le sue responsabilità per amore materno e accettando di essere inserita in un programma di protezione. Fu una scelta dirompente, che spiazzò gli inquirenti. Per loro, quella scelta era una falla potenzialmente dirompente nel sistema dei Mancuso, una vera e propria bomba. Quella notte, tra la caserma di Nicotera e il Comando provinciale dei carabinieri di Catanzaro, dove fu immediatamente trasferita per ragioni di sicurezza, Tita fu un fiume in piena. Riempì con le sue dichiarazioni tre pagine di verbali. Addirittura chiamò suo marito al telefono, gli comunicò la sua decisione di cambiare vita, lo implorò di fare lo stesso. Ma non fu semplice, anzi. Quella fu una notte tormentata, una drammatica altalena di sentimenti, tra sensi di colpa, tentennamenti, ripensamenti. Quei verbali Tita non li firmò. Chiese di rimandare al mattino successivo la sottoscrizione delle sue dichiarazioni. Poi firmò solo la prima pagina e scrisse a metà il suo nome sulla seconda. Infine,  di fronte ai militari che tentavano di convincerla - dicendole che, se non avesse firmato, sarebbe dovuta tornare a casa da suo marito - chiese di chiamare sua sorella. Fu il passaggio decisivo: “non firmo, non firmo proprio”. Alle 5.00 del mattino del 15 marzo, Antonietta Buccafusca prelevò sua sorella a Catanzaro per riportarla a casa. Chissà cosa dovette essere la vita di Tita nei giorni successivi. Un mese esatto. Il 16 aprile, Pantaleone Mancuso bussò alla stessa caserma dei carabinieri dove sua moglie si era rifugiata per comunicare ai militari che lei, Tita, aveva buttato giù mezza bottiglia di acido muriatico. Morì due giorni dopo, tra atroci sofferenze, mangiata viva dall’acido, su un letto dell’ospedale di Reggio Calabria. Aveva 37 anni. Suo figlio poco più di 15 mesi. 

Vicenda giudiziaria

Come Tita aveva previsto, immediatamente si cercò di alimentare l’ipotesi della depressione e della pazzia. Ma da subito apparve chiaro che quella vicenda non poteva essere liquidata così. Perché una donna che un mese prima, per amore di suo figlio, aveva deciso addirittura di rompere con la sua famiglia, mettendo in discussione tutta la sua stessa vita, avrebbe dovuto poi decidere di abbandonare per sempre quel bambino suicidandosi? La storia delle indagini sulla morte di Tita ruota intorno a questa e altre domande che non hanno trovato mai risposta. Venne aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio, ma non si trovarono riscontri e le indagini furono archiviate. Poi, nel 2015, il pentito Raffaele Moscato rilasciò alcune dichiarazioni  - in parte ancora secretate - nelle quali accostava la storia di Tita a quella di Maria Concetta Cacciola, un’altra giovane donna legata al clan Bellocco di Rosarno, morta anch’essa dopo aver ingerito acido muriatico. Nel 2016 le indagini vengono riaperte sulla base di alcune evidenze emerse dagli esami anatomo-patologici: la quantità di acido ingerito da Tita era decisamente superiore a quanto fosse umanamente sopportabile e dunque, da sola, la donna non sarebbe mai riuscita a buttarlo giù. Doveva essere stata costretta a farlo. Ma anche stavolta, nulla da fare. Nel 2018 l’inchiesta viene nuovamente archiviata. 

Pantaleone Mancuso, oggi al 41 bis, è stato costretto più volte in aula a tornare su questa vicenda drammatica e ha sempre negato un suo coinvolgimento in quella morte. Lo ha fatto a modo suo, una volta - nel 2016 - anche usando parole forti contro i magistrati. Contro una, in particolare, Marisa Manzini, PM della Distrettuale antimafia di Catanzaro: “fai silenzio che parrasti assai”, le disse. Parole delle quali è stato chiamato a rispondere e che sono diventate il titolo di un libro, scritto dalla Manzini ed edito da Rubettino nel 2019. Nelle pagine, il racconto lungo e sofferto del lungo colloquio avuto con Tita quella notte tra il 14 e il 15 marzo del 2011. 

Memoria viva

Il nome di Tita è stato inserito nell’elenco delle vittime innocenti delle mafie che ogni anno viene letto in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno promossa da Libera, che continua a chiedere verità e giustizia per questa mamma. L’amore per i figli è diventato uno strumento fondamentale per convincere le donne di ‘ndrangheta a cambiare vita, scegliendo percorsi nuovi per sé e i propri figli, provando a costruire percorsi nuovi di libertà. A Limbadi, a pochi chilometri da Nicotera, a Tita è stato dedicato un ostello sorto su un bene confiscato proprio ai Mancuso. Così rimane viva la memoria di questa donna mangiata viva da un amore tossico.