Ci sono parole che la cultura mafiosa ha svuotato del loro senso originale e di cui si è impadronita impunemente, distorcendone completamente il senso e il valore. È un meccanismo perverso e pericoloso, che capovolge la realtà e genera un vero e proprio corto circuito. Tra queste, c’è senz’altro la parola onore. E la parola onore è una di quelle che segnano la storia di Giuseppe Russo, insieme a un’altra, anch’essa tragicamente mortificata dalla mentalità mafiosa: amore. Onore e amore sono dunque le parole che accompagnano la vicenda di Pino, un ragazzo calabrese pulito e perbene, ucciso ad appena 22 anni per un distorto senso dell’onore, punito per un amore concepito come merce di scambio da sacrificare sull’altare degli interessi e del potere criminale.
Acquaro è un piccolo e povero paese in provincia di Vibo Valentia. Una terra sulla quale pesa una maledizione cui la mafia ha dato il nome di “lupara bianca”. In vent’anni, nel vibonese circa 50 persone sono uscite di casa per non farvi mai più ritorno e per molte di esse non si è saputo più nulla. La ‘ndrangheta ricorre a questo strumento di morte per le sue sentenze di morte e lo fa in una maniera drammaticamente efficace.
Pino nasce ad agosto del 1972 ad Acquaro: sua madre Teresa, il suo patrigno Orlando Luzza e suo fratello, più piccolo di due anni, Matteo Luzza. È una famiglia onesta di lavoratori. Orlando ha una piccola impresa edile e Pino, finite le scuole medie, decide di lasciare gli studi e dedicarsi al lavoro, imparando il mestiere di carpentiere. È bravo, impara in fretta, è sereno. La vita di questa famiglia scorre tranquilla. Così come quella di Pino, divisa tra il lavoro, gli amici, l’impegno nel gruppo giovanile del paese e nella scuola calcio. Nulla che potesse lasciare presagire il drammatico epilogo di un’esistenza così giovane.
Una storia di amore e di onore
Pino si era innamorato, ricambiato, di una ragazza, Angela, la cui sorella era la moglie di Antonio Gallace, boss di peso della ‘ndrangheta, uno dei principali protagonisti della cosiddetta faida delle Preserre vibonesi, tra i Comuni di Acquaro e Gerocarne. Quell’amore sincero e pulito, nella perversa logica dell’onore familiare tipica della cultura mafiosa, era uno smacco inconcepibile per Gallace, che considerava l’amore non un sentimento gratuito ma una merce di scambio: quella ragazza doveva servire per costruire e consolidare alleanze criminali. Questo sono le donne per la cultura della ‘ndrangheta. Ma Pino è innamorato per davvero e non indietreggia. Non lo fa neanche quando la sua auto viene data alle fiamme, episodio che denuncia alla locale caserma dei carabinieri, ma che viene classificato come un cortocircuito.
Non ha paura Pino di questo amore, lo vive alla luce del sole senza sentire il bisogno di nascondersi. Passeggiano insieme nel paese, ma ancora non hanno ufficializzato la loro relazione. Si conoscono da pochissimi mesi. Si sentono liberi di vivere il loro amore, senza pensare alle leggi della 'ndrangheta.
Antonio Gallace decide così di farla finita. Si rivolge a un latitante di una cosca della Piana di Gioia Tauro, Gaetano Albanese, chiedendogli il “favore” di ammazzare il ragazzo. Albanese accetta, in una logica di scambio di cortesie che doveva servire anch’essa a consolidare le relazioni criminali tra le famiglie di mafia. Incarica Rocco Franco di preparare il delitto e coinvolge altre persone. Tra queste, due giovanissimi ragazzi, Angelo Benedetto e Alessandro Morfei. Per loro, quella esecuzione sarà un battesimo di sangue. Quel maledetto 15 gennaio Pino viene attirato in una trappola, rapito e portato nei boschi. Viene pestato e gettato in una fossa scavata precedentemente, cosparso di benzina e dato alle fiamme. Toccherà ad Angelo Benedetto, all’epoca diciassettenne, esplodere il colpo di grazia: un intero caricatore sparato a distanza ravvicinata sul corpo martoriato di Pino.
Il 15 gennaio 1994
Pino era un giovane preciso e puntuale: non voleva in alcun modo che i suoi si preoccupassero per lui e così avvertiva sempre dei suoi spostamenti, delle sue uscite, dei suoi ritardi. È per questo che, quel maledetto 15 gennaio del 1994, il suo mancato rientro a casa destò sospetto e preoccupazione. Pino era uscito intorno alle 9.00 del mattino, annunciando di rientrare per mezzogiorno. Poi una telefonata in cui avvertiva che sarebbe rientrato più tardi, intorno alle 15.30. Ma quella fu l’ultima volta che i suoi familiari poterono sentire la sua voce. Alle 18.30 vengono avvertiti i Carabinieri. Si pensa a un incidente, a qualcosa che abbia impedito a Pino di tornare a casa. Ma l’idea che a Pino potesse essere accaduto quello che poi le indagini hanno appurato non sfiora la mente di nessuno.
La sua macchina, una Fiat Panda, fu ritrovata più tardi ai bordi di una strada: sull’asfalto un segno di frenata e le chiavi ancora nel cruscotto. Di Pino però nessuna traccia. I Carabinieri si mettono al lavoro senza sosta e col passare delle ore anche il paese si mobilita per stare accanto a quella famiglia perbene. Si moltiplicano gli appelli, ma Pino sembra essere sparito nel nulla. Passano i giorni e poi i mesi. Poco più di due mesi, per la precisione.
Il 21 marzo il corpo martoriato di Pino viene ritrovato in una fossa scavata nei boschi in località Giardino a Monsoreto di Dinami, 15 chilometri da Acquaro. È l’ultimo tassello di una storia tragica di onore e di amore.
Puntata della trasmissione "Contro le mafie" dedicata a Pino Russo del Canale History in collaborazione con Libera.
Vicenda giudiziaria
Quel 21 marzo gli inquirenti arrivano sul luogo del delitto su indicazione dello stesso Albanese, arrestato e messo spalle al muro dalle dichiarazioni di Rocco Franco, che intanto aveva deciso di collaborare con la giustizia. Come lui farà, oltre ad Albanese, anche Benedetto. La giustizia ha condannato all’ergastolo Gallace come mandante dell’omicidio. Albanese, Benedetto e Morfei devono scontare oltre 20 anni. L’unico assolto è Rocco Franco.
Memoria viva
Un capitolo del libro "Onore e dignitudine" di Ludovica Ioppolo e Sabrina Garofalo, edito da Falco editore, è dedicato alla storia di Pino.
Il cantautore Francesco Pecs ha dedicato a pino una canzone, Morire a vent’anni.
È vero. Quando uccidono un familiare, anche il resto della famiglia viene colpito a morte. Ma la straordinarietà del dopo è altro. Se hai la fortuna di incontrare sul tuo cammino persone speciali, altri che come te hanno subito lo stesso dolore e le stesse sensazioni ed emozioni. Se hai la fortuna di incontrare sul tuo percorso tanti bei volti e tante belle persone. E da loro e con loro, tutti quei perché impari a trasformarli in altro, in impegno. Impegno a tenere viva e alta la memoria che non va assolutamente dispersa. Memorie, evvero sì, private, ma che messe tutte assieme, diventano per forza di cose, per dovere e senso civico, memorie collettive. Sarebbe peccato mortale e grave, ucciderli una seconda volta. La si darebbe vinta alle forze del male, che preferiscono il silenzio e la rassegnazione. Loro sono ancora vivi. Sono vivi in noi. Sono vivi con noi e per noi. Sono vivi in quell'infinito fatto di speranza e civiltà.