19 marzo 1994
Casal di Principe (CE)

Peppe Diana

L'omicidio di don Peppino ha segnato un passaggio epocale: la nascita di un popolo, il popolo casalese, che negli anni seguenti e grazie al sangue innocente di un martire, si sarebbe ripreso il proprio nome, strappandolo a quello di un clan.

Che nulla sarebbe stato più come prima qualcuno lo percepì già in quelle ore drammatiche e terribili. Per Casal di Principe, per la terra casertana, per la storia del movimento anticamorra in Campania. Nulla sarebbe stato più come prima, perché la camorra aveva osato colpire a morte un uomo, senza rendersi conto che quel seme avrebbe generato frutti di vita, di ribellione, di riscatto. Chi percepì il senso profondo di questo passaggio epocale usò parole profetiche per annunciarlo. Come don Antonio Riboldi, all’epoca Vescovo di Acerra: “il 19 marzo - disse nel giorno dei funerali di don Peppe Diana - è morto un prete ma è nato un popolo”. L’omicidio di don Peppino è stato esattamente questo: una rottura storica che segnò l’arrivo di una nuova primavera di libertà e di cambiamento.

Video testimonianza di Marisa Diana, sorella di don Peppe Diana

Giuseppe era il primo dei tre figli di Gennaro Diana e di Iolanda di Tella. Era nato a Casal di Principe, nel cuore della pianura di Terra di Lavoro, il 4 luglio del 1958. Dopo di lui sarebbero arrivati Emilio e Marisa a completare il quadro di una famiglia umile e semplice di agricoltori e piccoli proprietari terrieri. Lavorare la terra era stato lo strumento grazie al quale, a costo di enormi sacrifici e di grandi fatiche, Gennaro e Iolanda erano riusciti ad assicurare a Peppino la possibilità di studiare e magari anche di allontanarsi da Casale, da quella terra difficile, spesso ostile.

Così, dopo gli studi liceali presso il seminario di Aversa, questo ragazzo sveglio, esuberante, dall’intelligenza acuta aveva scelto di trasferirsi a Roma, incoraggiato dai suoi genitori e spinto da una forte vocazione all’impegno pastorale. Ma l’ambiente rigido e austero del Collegio Capranica, dove si era stabilito per seguire gli studi in Filosofia e Teologia della Pontificia Università Gregoriana, gli stava stretto. Peppino si rese conto che lì non avrebbe potuto vivere appieno la sua missione per una chiesa militante, vicina ai più deboli, impegnata a difendere e cambiare quella terra che, nonostante tutto, amava profondamente. Così lasciò la Capitale per tornare a casa e tentare la strada della facoltà di Ingegneria all’Università Federico II di Napoli. Ma, ancora una volta, percepì che non era quello il suo percorso, che doveva ancora trovare il sentiero giusto lungo il quale dare sostanza e concretezza alla sua vocazione.

Dopo un periodo di crisi, la svolta arrivò quando decise di seguire gli studi teologici presso la Pontificia Università Teologica dell’Italia meridionale, al Seminario di Posillipo. Da quel momento, gli fu tutto più chiaro. Sarebbe rimasto lì, nella sua terra, a fare del suo sacerdozio una missione di impegno, di servizio, di amore. Verso la sua gente, verso il suo popolo, verso la sua terra. Uscì dal seminario con una laurea in Teologia biblica, cui fece seguire quella in Filosofia alla Federico II.

Il 1978 è un anno importante in questa storia, perché incrocia la storia di Peppino con quella degli Scuot. Una storia mai più interrotta, perché l’Agesci fu per Giuseppe una seconda famiglia, uno degli strumenti che più amò per incarnare pienamente la sua missione di servizio al prossimo. Quando fu ordinato sacerdote, il 14 marzo del 1982, questo profondo rapporto con il mondo scout si radicò ancora di più. Don Peppe divenne assistente ecclesiastico del gruppo Scout di Aversa e poi del settore Foulard Bianchi, la comunità scout internazionale fondata a Lourdes nel 1926. Ma il suo ministero e il suo spirito di generosità lo portarono anche a diventare Cappellano dell’Unitalsi, a impegnare la sua vita accanto ai sofferenti, ai malati, ai bisognosi. Questa era la chiesa che amava, quella alla quale, sin da ragazzino, aveva desiderato appartenere. Il rapporto con i giovani lo entusiasmava, perché sentiva che a loro poteva consegnare qualcosa, che da loro poteva tirare fuori talenti, passioni, iniziative. Insomma, che poteva dare un senso vero a una parola che tanto amava: educazione.

Ce n’era bisogno, eppure tanto. Perché quella terra, la sua terra, continuava ad attraversare tempi difficili. Tempi nei quali lo sforzo educativo era non solo necessario, ma vitale per tentare di strappare i giovani alla camorra, per sottrarle terreno e consenso sociale. Lì, a Casale e nelle città intorno, la malavita esercitava il suo dominio indisturbata, stringendo alleanze, intessendo relazioni, infiltrandosi nella politica, nelle istituzioni e nel tessuto imprenditoriale. Una cappa asfissiante, dove era impossibile finanche pronunciare i nomi dei grandi e potentissimi boss che tenevano sotto scatto il territorio. Francesco Schiavone, “Sandokan”, per esempio, indiscusso capo della camorra casalese. Bisognava fare qualcosa e don Peppino, da uomo di chiesa, sentiva che non poteva restare a guardare. Che la chiesa non poteva restare a guardare.

Quando, il 19 settembre del 1989, gli fu affidata la parrocchia di San Nicola di Bari, nella sua Casal di Principe, don Peppe sentì che i tempi erano maturi per uno scatto in avanti. Nel mentre si dedicava ai suoi parrocchiani, insegnava lettere al liceo del seminario Caracciolo e religione in alcune scuole superiori di Aversa e svolgeva le funzioni di segretario dell’allora Vescovo di Aversa Mons. Giovanni Gazza. Intanto, sentiva crescere dentro di sé il desiderio di fare di più, di pronunciare parole chiare contro la camorra, che distruggeva il futuro di quella terra e della sua gente. Don Peppino avvertiva di avere intorno a sé una chiesa capace di compiere questo passo, che lo avrebbe seguito, assecondandone quell’impegno di denuncia che, del resto, si sposava perfettamente con il Vangelo e con l’impegno pastorale. 

L’occasione arrivò con il Natale del 1991. In un contesto nel quale la pervasività della camorra dimostrava tutti i suoi devastanti effetti sull’economia e sulla società, nel pieno di uno scontro senza quartiere per il controllo del territorio, don Peppe decise di mettere nero su bianco il grido di allarme suo e della chiesa locale. La notte di Natale, in tutte le chiese della Forania di Casal di Principe, fu letto il testo della lettera “Per amore del mio popolo, non tacerò”. Un vero e proprio manifesto di denuncia contro la camorra, “una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Cinque paragrafi che sono una fotografia allarmante e preoccupata della situazione:

La camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc, non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi, un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.
don Peppe Diana

Poi un appello forte rivolto alla chiesa, una richiesta di maggiore impegno e responsabilità capace di segnare un nuovo inizio per tutti:

Le nostre Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili.
don Peppe Diana

Parole dirompenti, mai sentite prima, un vero e proprio pugno nello stomaco per coscienze assopite e indifferenti. Parole che di certo segnarono un passaggio cruciale nella vita di questo prete coraggioso e della sua terra.

Gli anni seguenti furono vissuti da don Peppe in coerenza con questo messaggio di speranza, di ribellione, di rinnovato impegno per la costruzione di un nuovo modello culturale e di vita in quella terra ostaggio della camorra. Fino alla mattina del 19 marzo del 1994, giorno del suo onomastico.

19 marzo 1994

Alle 7.20 don Peppino era in chiesa già da un po’. Più tardi, in mattinata, avrebbe dovuto festeggiare con qualche amico. Uno di loro, Augusto Di Meo, lo aveva raggiunto di buon’ora in parrocchia. Tra i banchi, si erano già sistemate alcune persone per assistere alla prima Messa della giornata. Fuori, nel piazzale antistante, si era appostata una macchina, dalla quale, arrivato don Peppe, era sceso un uomo sulla quarantina, capelli lunghi e giubbotto nero. Fu lui a raggiungere il sacerdote in sagrestia, dove, in compagnia di Augusto, don Peppe stava indossando i paramenti sacri. “Chi è don Peppe?”. Una domanda strana, alla quale arrivò pronta la risposta del prete: “Sono io”. I quattro colpi di calibro 7,65 esplosi dal killer andarono tutti a segno. Don Peppino morì all’istante, senza avere neanche il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo. L’assassino uscì dalla chiesa, risalì a bordo dell’auto sulla quale lo aspettavano i complici e si dileguò.

L’omicidio di don Peppe fu una notizia deflagrante. Ne parlò, nell’Angelus del 20 marzo, anche Papa Giovanni Paolo II:

Sento il bisogno di esprimere, ancora una volta, il vivo dolore in me suscitato alla notizia dell'uccisione di don Giuseppe Diana, parroco della diocesi di Aversa, colpito da spietati assassini mentre si apprestava a celebrare la Santa Messa. Nel deplorare questo nuovo, efferato crimine, vi invito ad unirvi a me nella preghiera di suffragio per l'anima del generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra e morto, produca frutti di sincera conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace.
Giovanni Paolo II, Angelus di domenica 20 marzo 1994

La comunità di Casale visse con profondo turbamento quelle ore tragiche, partecipando commossa a un lutto devastante, assurdo, impensabile. Eppure non era ancora tutto. Perché quella comunità – e naturalmente i familiari di don Peppe – dovettero subire, nelle settimane e nei mesi successivi, anche il dolore del fango gettato addosso al sacerdote. Una vera e propria campagna diffamatoria, che trovò posto anche sulle pagine del Corriere di Caserta, per tentare di depistare le indagini. Di don Peppe si disse che era stato ucciso per questioni di donne, che era coinvolto in un giro di pedofilia, che custodiva le armi dei clan di camorra. Schizzi di fango che però non sono riusciti a macchiare il valore della sua testimonianza.

Vicenda giudiziaria

Nel 2003 è stato condannato all’ergastolo, come mandante dell’omicidio di don Peppe, Nunzio De Falco. Arrestato dopo una breve latitanza in Spagna, o’ lupo - come era soprannominato - tentò inizialmente di addossare le responsabilità del delitto al boss Francesco Schiavone. Successivamente, messo alle strette dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Quadrano, esecutore materiale del delitto, fu costretto a confessare. È morto nell’aprile del 2022 per un male incurabile.

Quadrano è stato condannato a 14 anni. Nel marzo del 2004 è arrivata anche la condanna all’ergastolo per Mario Santoro e Francesco Piacenti, ritenuti coautori dell’omicidio.

La scelta di uccidere don Giuseppe Diana - scrivono i giudici - ebbe soprattutto una forte carica simbolica, come segnale che avrebbe dovuto essere dirompente e risolutorio nella contrapposizione tra il gruppo De Falco-Quadrano e i casalesi.

Nel processo, che ha visto la costituzione di parte civile dei familiari di don Peppe e dell’Agesci, decisiva è stata la testimonianza di Augusto Di Meo, che ha allertato i Carabinieri subito dopo l’omicidio e riconosciuto in Quadrano il killer.

Memoria viva

L’impatto dell’uccisione di don Peppe Diana sulla cultura di massa è stato ed è tutt’ora enorme. È impossibile elencare tutte le iniziative, i progetti, i segni concreti e tangibili di una memoria viva che continua a dare frutti di speranza, di riscatto e di cambiamento. Lo Stato gli ha conferito la medaglia d’oro al valore civile per essere stato in prima linea contro il racket e lo sfruttamento degli extracomunitari, e perché, pur consapevole di esporsi a rischi mortali, non ha esitato a schierarsi apertamente contro la camorra.

Nel 2006, a Casal di Principe, è stato costituito ufficialmente il Comitato don Peppe Diana, che da allora si impegna per attuare sul territorio nuove strategie e nuovi modelli di economia, in particolare attraverso il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla camorra. Con l’aiuto di Libera, nelle terre confiscate ai clan nel casertano, operano cooperative agricole che promuovono i prodotti tipici del luogo nel nome di don Diana. Tra queste la Cooperativa Le terre di don Peppe Diana - Libera Terra, che gestisce a Castelvolturno un caseificio per la produzione di mozzarella di bufala campana dop.

Ricchissima la produzione editoriale e numerosi anche i riferimenti televisivi e cinematografici alla vicenda di don Peppe. Il 18 e 19 marzo del 2014, a vent’anni dall’uccisione del sacerdote, Rai 1 ha trasmesso in prima visione una fiction in due puntate dal titolo “Per amore del mio popolo”, con Alessandro Preziosi nel ruolo di don Peppe. Al sacerdote è stato anche dedicato un documentario di Rai Storia dal titolo “Non tacerò, la storia di don Peppe Diana”.

Nel 2015, il Comitato e l’Agesci hanno formalmente richiesto di aprire un’istruttoria per la beatificazione di don Peppe. Un tema tornato di attualità dopo che Papa Francesco ha autorizzato la beatificazione del giudice Rosario Livatino, riconoscendone il martirio in odium fidei.

Un anno prima, il 21 marzo del 2014, al termine della veglia di preghiera nella Chiesa di San Gregorio VII a Roma, in occasione della XIX Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, il presidente di Libera don Luigi Ciotti ha consegnato a Papa Francesco la stola di don Peppe, chiedendogli di indossarla per impartire la benedizione alle centinaia di familiari di vittime innocenti delle mafie presenti.