Nunzio Pandolfi era nato nel settembre del 1988. Suo padre Gennaro si era innamorato di Vincenza Esposito quando già aveva una moglie e una famiglia. Li aveva lasciati a Forcella, il suo quartiere, per trasferirsi in casa della nuova suocera, alla Sanità e mettere su la sua seconda famiglia, di cui Nunzio era stato il frutto. Ma con il suo quartiere di origine il legame non si era mai interrotto. Di mestiere Gennaro faceva il venditore ambulante di abbigliamento. A questa attività di facciata, aveva affiancato però un altro lavoro, che gli era stato offerto direttamente dal clan che da sempre dominava su Forcella, quello dei Giuliano. Così, era diventato l’autista del boss Luigi Giuliano, Lovigino il re lo chiamavano da queste parti. Tutto questo, in un periodo particolarmente convulso per gli assetti criminali e mafiosi dell’area napoletana, sconvolti da una guerra feroce tra gli stessi Giuliano e la famigerata Alleanza di Secondigliano, guidata da Gennaro Licciardi e alla quale avevano aderito altri potenti clan della città e della provincia, dai Contini ai Casalesi ai Mallardo. Una guerra fatta di violenza e sangue, la cui ultima vittima era stato un uomo molto vicino a Eduardo Contini, 'o romano, boss e fondatore dell’omonimo clan. Un omicidio del quale erano stati incolpati proprio i Giuliano di Forcella. Un affronto che andava punito con altro sangue. Bisognava individuare e colpire qualcuno vicino al boss di Forcella e alla fine la scelta ricadde proprio su Gennaro Pandolfi.
Il 18 maggio del 1990
Il 18 maggio del 1990 era un venerdì. Gennaro aveva lasciato proprio quel giorno l’ospedale, dove era stato ricoverato per molti mesi a seguito di un brutto incidente che gli era costato l’amputazione di 4 dita di un piede. La sua nuova famiglia aveva deciso così di organizzare a tarda sera una piccola festa a sorpresa nella casa della mamma di Vincenza, un paio di stanzette in vicoletto San Vincenzo alla Sanità, alla presenza di un decina di parenti. Nunzio era tra le braccia di suo padre mentre mangiava una fetta di pizza. Fu proprio qui, in questo modesto appartamento, che avvenne la tragedia. Un’azione fulminea, condotta con lucida spietatezza da due killer, che fecero irruzione in casa dopo averne sfondato a calci la porta, armati di pistole automatiche e col volto coperto da passamontagna e fazzoletti. Un inferno di fuoco. Alla fine, la scientifica individuò in quei 12 metri quadri 14 bossoli calibro 9 e calibro 22. Il bilancio dell’agguato fu drammatico: 2 morti e 4 feriti. A morire sotto il piombo dei killer Gennaro, all’epoca ventinovenne e il piccolo Nunzio, colpito al cuore dall’unica pallottola che lo aveva raggiunto. Inutile la corsa in ospedale, dove i soccorritori lo trasportarono d’urgenza mentre ancora respirava. Il bimbo entrò in sala operatoria all’una di notte, ma non ne uscì vivo.
La morte di Nunzio sconvolse Napoli e l’Italia. Accade sempre così, soprattutto quando a morire sotto i colpi della violenza della camorra sono bambini e bambine, vittime innocenti di una violenza che non si ferma davanti a niente. Ma la memoria di Nunzio, insieme a quella delle decine di altri bambini come lui strappati alla vita troppo presto, rimane viva nel ricordo di quanti, ancora oggi, provano a cogliere la provocazione di quelle parole pronunciate dal parroco davanti alla bara, piccola e bianca, di Nunzio: “fujtevenne ‘a Napule”. Un grido di rabbia e disperazione che qui, ogni giorno, in tanti cercano di trasformare in impegno e responsabilità. Perché a Napoli, nonostante tutto, ci vogliono restare.
Vicenda giudiziaria
Sulle prime, le indagini non esclusero nessuna pista, a cominciare da quella passionale, che però poi fu scartata dagli inquirenti. I due killer - Eduardo Morra (sulla cui colpevolezza diversi collaboratori hanno successivamente manifestato molti dubbi) e Mario Rapone - furono individuati, processati e condannati all’ergastolo in tempi record. Decisiva fu la testimonianza di una donna, Giuseppina Poziello, che aveva visto in faccia i killer di Nunzio. Giuseppina era incinta ed era stata minacciata con una pistola, ma questo non l’aveva fermata. Aveva trovato ancora più forza di ribellarsi a una cultura di morte, di cui lei per prima era stata vittima anni prima. Testimoniò in tribunale durante il processo per il duplice omicidio, processo nel quale la famiglia del piccolo Nunzio non si era costituita parte civile.
A lungo invece sui mandanti non si è riusciti in alcun modo a fare luce. Nel 2006, le dichiarazioni di diversi collaboratori - otto in totale, tra cui in particolare il casalese Luigi Diana e lo stesso boss di Forcella, Luigi Giuliano - confermarono i nomi degli esecutori e consentirono agli investigatori di individuare anche i tre presunti mandanti dell’agguato. Secondo i collaboratori, l’azione di morte era stata voluta da Gennaro Licciardi, Luigi Guida e Giuseppe Mallardo, gli ultimi due già in carcere per altri reati, il primo invece deceduto nel penitenziario di Voghera nel 1994. Per tutti, l’accusa era di duplice omicidio premeditato. Il movente, la vendetta a seguito dell’attacco omicidiario al clan Contini.
Il 9 giugno del 2009, la V sezione della Corte d’Assise emette la sentenza di condanna all’ergastolo per Mallardo, individuato come mandante, e Guida, ritenuto tra gli organizzatori dell’agguato. Ma poco più di un anno dopo, nel novembre del 2010, la Corte di Assise d’Appello ribalta la sentenza e assolve entrambi gli imputati. Passa la linea della difesa, che evidenzia alcune incongruenze nelle dichiarazioni dei collaboratori. Dunque, nulla di fatto.
Memoria viva
Il nome di Nunzio è ricordato, insieme alle oltre 1000 vittime innocenti delle mafie che ogni anno in occasione del 21 marzo, la Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, riecheggiano in tanti luoghi. Per noi Nunzio ha un vero e proprio diritto al ricordo, un diritto che restituisce “dignità” a ogni nome che ricordiamo, che rappresenta la promessa a Nunzio che non dimenticheremo la sua storia, i suoi progetti di vita, portando con noi i suoi sogni e rendendoli vitale pungolo del nostro impegno quotidiano.