La storia della Repubblica ha conosciuto pagine misteriose, sulle quali non si è riusciti - o forse non si è voluto - mai davvero fare piena luce. Sono pagine buie, buchi neri che hanno inghiottito alcune delle vicende più controverse che il Paese abbia attraversato, facendo calare una fitta coltre di mistero su episodi e storie che, a distanza di molti anni, ancora attendono verità e giustizia.
Quella dell’omicidio del Capo della Squadra mobile di Napoli, Antonio Ammaturo, è una di queste. Una storia che puzza di intrighi, interessi oscuri, legami perversi e indicibili tra la camorra, i Servizi segreti, potenti personaggi della politica e delle Istituzioni. Ma una storia che, nel contempo, odora ancora oggi di vita, di fedeltà allo Stato, di abnegazione e di un profondissimo senso del dovere.
Se si dovesse descrivere in poche battute la vita di questo segugio, nato con un talento naturale per l’attività investigativa, basterebbe il riferimento a questi valori che ne hanno ispirato tutta la vita. Valori che Antonio ha incarnato con coraggio, mosso da una passione smodata per il suo lavoro, che aveva sognato sin da bambino.
Era nato a Contrada Antonio, in provincia di Avellino, l’11 gennaio del 1925. Un piccolo paese che all’epoca contava poco più di 2000 abitanti e che oggi supera di poco i 3000. Era un ragazzo sveglio, perspicace, intelligente, cresciuto con l’ambizione di diventare un grande poliziotto. Era l’attività investigativa ad affascinarlo, in particolare. Si sentiva naturalmente portato per questo lavoro, che viveva come una vera e propria passione. E fu evidentemente per questa inclinazione naturale che scelse di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza e laurearsi in legge. Lo stesso talento che, conseguita la laurea, lo portò a sostenere il concorso in Magistratura, che superò senza particolari problemi. Ma non era convinto che fosse quella la sua strada. Sentiva che avrebbe potuto dare corpo meglio alla sua passione diventando un poliziotto e si convinse sempre di più che fosse proprio quella la scelta da compiere. Così, nel 1955, entrò in Polizia, come funzionario. Dopo aver frequentato la Scuola superiore di Polizia, venne assegnato alla questura di Bolzano e poi a quella di Avellino. Una carriera fulminante, costellata di successi, riconoscimenti e promozioni: nel solo 1973, riuscì a conseguirne tre, venendo nominato primo dirigente della Squadra mobile, poi vice questore e infine vice questore aggiunto in servizio a Frosinone e poi a Napoli. Qui guidò diversi commissariati, tra i quali quello di Giugliano. Otto anni di lavoro in una città difficile, dove pure si distinse per l’arresto del potente boss della camorra Alfredo Maisto. Un arresto pesante, a seguito del quale fu trasferito in Calabria, anche qui mettendosi in mostra per le sue straordinarie capacità investigative e operative. Nel settembre del 1981 diventa capo della Squadra mobile di Napoli e continua ad accumulare grandi successi. Uno in particolare, che fu probabilmente tra le ragioni per le quali fu condannato a morte, e cioè l’arresto di Roberto Cutolo, figlio dell’indiscusso capo della NCO Raffaele, ammanettato dopo un blitz nel Castello mediceo di Ottaviano, nel mentre era in corso un vertice di camorra.
Erano gli anni nei quali la camorra di Cutolo teneva sotto scacco interi pezzi di territorio. La violenza era lo strumento con il quale, quotidianamente e in una escalation senza precedenti, si regolavano i conti e i rapporti di forza. All’interno e all’esterno del mondo criminale. Dinamiche e strategie che Ammaturo conosceva bene e alle quali si opponeva con determinazione e senso del dovere. Cutolo era per lui un nemico giurato: “Cutolo? Un cialtrone che ha fortuna in una società che non funziona”, lo aveva definito. L’arresto del figlio dovette dunque essere un passaggio particolarmente importante della sua carriera. E del resto, il 23 novembre del 1980, il terremoto che aveva sconvolto l’Irpinia, terra di origine di Ammaturo, e il resto della Campania, era stata l’occasione per un ulteriore rafforzamento della camorra cutoliana, che era riuscita a compiere un nuovo e decisivo salto di qualità. Una vicenda, quella del terremoto, alla quale è indissolubilmente legata un’altra storia, quella del misterioso rapimento e dell’ancor più oscuro rilascio dell’Assessore regionale ai Lavori Pubblici della Campania, il potente democristiano Ciro Cirillo.
Il rapimento di Ciro Cirillo
In un contesto così delicato, è comprensibile quanto il lavoro assorbisse completamente gran parte della vita di Antonio. E tuttavia, il capo della Mobile aveva messo su una bella famiglia, sposando Ermelinda Lombardi e diventando padre di tre figlie: Gilda, Maria Cristina e Grazia. Nei ricordi dei suoi cari, viene fuori l’immagine di un uomo buono e generoso, intransigente ma anche aperto all’ascolto di chi aveva più bisogno, di chi soffriva i mali atavici della città di Napoli, primo tra tutti la mancanza cronica di lavoro. Il tratto principale della personalità di questo fedele servitore dello Stato resta però soprattutto la passione per il suo lavoro, il coraggio nel compiere quotidianamente il proprio dovere, la dedizione con la quale sempre si è dedicato a difendere la legalità e la giustizia. E c’era un filone in particolare al quale si era dedicato negli ultimi anni di lavoro. Un lavoro certosino e scrupoloso per riuscire a ricostruire con puntualità i legami perversi tra la camorra e gli ambienti della politica. La vicenda del rapimento di Ciro Cirillo in un certo senso diede una spinta ulteriore a questo filone di indagini. L’assessore Cirillo era stato rapito da diversi uomini delle Brigate Rosse il 27 aprile del 1981 nel garage della sua abitazione di Torre del Greco, per poi essere misteriosamente rilasciato in un edificio abbandonato di Secondigliano. Le voci di una presunta trattativa segreta con le BR, mediata dal capo della NCO Raffaele Cutolo con l’intervento dei Servizi segreti erano assai insistenti ed, evidentemente, molto di più che semplici voci. Antonio lo aveva intuito e più volte, anche in famiglia, aveva accennato alle sue indagini su quella storia, lasciando intuire la pericolosità delle cose che aveva scoperto. Ne aveva scritto anche in due dossier, uno spedito al fratello Grazio e l’altro inviato al Ministero dell’Interno. Dossier mai arrivati a destinazione.
Il capo della Squadra mobile sapeva che quella era roba che scottava, perché avrebbe potuto dimostrare in maniera inconfutabile i legami e gli intrecci indicibili tra mafia, politica, terrorismo e pezzi deviati delle Istituzioni. Era intenzionato ad accelerare quel filone di indagine, ma non ne ebbe il tempo. Le sue capacità investigative, l’antico risentimento di Cutolo per l’arresto del figlio, la consapevolezza che Ammaturo stesse per scoperchiare il vaso di Pandora, accelerarono anche la decisione di fermarlo una volta per tutte.
Il 15 luglio del 1982
Il 15 luglio del 1982 era un giovedì. C’era un caldo afoso e l’Italia era ancora presa dalla sbornia per il 3 a 1 inflitto quattro giorni prima alla Germania Ovest dalla nazionale di calcio nella finale dei Mondiali di Spagna. Intorno alle 16.45 il citofono di casa Ammaturo, nella centralissima piazza Nicola Amore, squillò. Giù era arrivato Pasquale Paola, agente scelto della Polizia, tra i più fidati collaboratori di Antonio. A bordo dell’Aletta bianca di servizio, Paola era venuto a recuperare il suo capo per portarlo in ufficio. Ermelinda stava preparando il caffè, ma Antonio non volle far aspettare il collega e si avviò per le scale. Ad attenderlo, però, non c’era solo Pasquale. I due poliziotti ebbero solo il tempo di salire in macchina e fare pochi metri quando una Fiat 128 di colore verde sbarrò la strada. Due killer con una tuta da meccanico scaricarono sull’auto di servizio decine di colpi di pistola e mitraglietta. Per Antonio e Pasquale non ci fu scampo. Poi gli assassini salirono a bordo della 128 e si diedero alla fuga. Antonio aveva 57 anni, Pasquale appena 32.
Vicenda giudiziaria
Le indagini, partite immediatamente, accertarono che l’omicidio era stato eseguito da un commando della colonna napoletana delle Brigate Rosse. Un’azione di morte per la quale sono stati condannati all’ergastolo Vincenzo Stoccoro, Emilio Manna, Stefano Scarabello, Vittorio Bolognesi e Marina Sarnelli. Quello che invece è tuttora avvolto dal mistero è chi avesse ordinato quella morte. Il sospetto forte, ma mai confermato in un’aula di Tribunale, è che in realtà quell’omicidio fosse nato da almeno due moventi intrecciati tra loro. Ammaturo sarebbe stato scelto come “merce di scambio” nell’accordo tra NCO e BR per la liberazione dell’assessore Cirillo. Bisognava colpire un esponente di livello della Polizia e la scelta non poteva che ricadere sul valoroso capo della Squadra Mobile, al quale peraltro Cutolo non aveva perdonato - e questo sarebbe il secondo movente - l’arresto del figlio Roberto, avvenuto l’anno precedente ad Ottaviano.
Mio padre era molto presente, nonostante fosse mandato sempre lontano per lavoro in posti difficili dove c’era bisogno di una figura valida. Io, mia madre e le mie sorelle vivevamo ad Avellino, mentre lui era in continuo spostamento. Noi non potevamo seguirlo perché mia madre insegnava qui e anche noi frequentavamo qui la scuola. Nostro padre, però, riusciva a non farci mancare mai il suo affetto, ci chiamava tutti i giorni, era il nostro confidente. Faceva lunghi viaggi ogni fine settimana per venirci a trovare e ricordo la gioia di noi ragazze quando ci svegliavamo e lui era lì con tanti regali.
Ancora oggi la morte di mio padre resta senza un perché. Troppe cose non chiare. Troppi misteri. Il fatto che riesca a parlarne, però, mi aiuta a elaborare il lutto. Ci riesco da qualche anno grazie a Libera. Mi ha aiutato molto. Grazie a loro ho incontrato tanti bambini e ragazzi nelle scuole della provincia di Avellino. A loro ho parlato di mio padre e del suo lavoro come funzionario dello Stato. Ho parlato dei suoi valori. Un esempio di vita per i giovani di oggi. “Un poliziotto duro dal cuore d’oro” che è stato sempre fiero di servire lo Stato.
Memoria viva
Il 3 maggio del 1984 ad Antonio Ammaturo è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile alla memoria. Sono numerosissime le iniziative che rendono quella di questo valoroso poliziotto una memoria viva, in grado di indicare una direzione e una traccia per l’impegno di tante e tanti. Intitolazioni, iniziative, un Premio conferito a personale della Polizia di Stato che si è particolarmente distinto. La sua storia, insieme a quella del fidato Pasquale Paola, è raccontata nel libro “Al di là della notte” del giornalista Raffaele Sardo. In suo nome è nato inoltre un Centro per disabili ospitato al Parco Ammaturo, un bene confiscato nel comune di Giugliano, e gestito dalla Fondazione Il Girasole.
Tra i primi a cercare di fare luce sulla tragica vicenda dell'omicidio di Antonio Ammaturo e Pasquale Paola, fu Corrado Augias nel 1991 nel corso della trasmissione "Telefono giallo". Anche Carlo Lucarelli s e ne è occupato nel corso della sua trasmissione "Blu notte - Misteri italiani" nel 2010. Il 10 marzo del 2019, invece, il giornalista Sandro Ruotolo ha raccontato la storia di ammaturo per la testata di "Fanpage.it".