16 aprile 1993
Reggio Calabria (RC)

Giuseppe Marino

Era un uomo onesto, che con onestà svolgeva la propria professione. Perché la differenza la fa il modo in cui decidiamo di stare al mondo, di vivere, di occuparci della nostra comunità. E Giuseppe incarnava con questo spirito la sua professione.

Corso Garibaldi è il salotto buono di Reggio Calabria. Qui lo chiamano semplicemente il corso. Oltre due chilometri di strada che collega il versante nord con i quartieri meridionali. È il cuore economico e commerciale della città, su cui si affacciano tutti i negozi, i bar e le boutique più prestigiose, oltre che alcuni dei più importanti palazzi storici. Eppure troppo a lungo questo luogo, divenuto nel tempo in qualche modo il simbolo della città e del suo centro storico, è stato deturpato dall’ingombro di traffico, dalla sosta selvaggia, da auto e motorini lanciati a folle velocità o parcheggiati ovunque. I tentativi di farne un’isola pedonale, limitando e regolamentando la circolazione, c’erano stati, ma erano tutti miseramente falliti. Un po’ per mancanza di attenzione e cura nel far rispettare le regole, un po’ perché ai reggini proprio non andava giù questa storia dei divieti. Nel marzo del 1993, il sindaco Giuseppe Reale, eletto dopo la Tangentopoli che aveva travolto l’amministrazione precedente, decise di riprovarci. Poco dopo l’elezione, il 6 aprile, ordinò il divieto di sosta e transito lungo la strada, disponendo un vero e proprio giro di vite, fatto di controlli serrati, multe e posti di blocco. A vigilare sul rispetto dell’ordinanza, i Vigili Urbani della città. Sembra una vicenda banale, come ce ne sono in tante città d’Italia. Eppure, nella sua banalità, questa vicenda ci consegna un epilogo drammatico, che ancora una volta racconta della cultura di violenza e sopraffazione che impregna la criminalità organizzata.

Il protagonista di questa storia è un agente della Polizia Municipale dal volto paffuto e rassicurante. Un paio di baffi scuri a incorniciagli le labbra. Si chiama Giuseppe Marino e nel 1993 ha 43 anni. È in servizio da un po’ di tempo presso il Comando dei Vigili Urbani di Reggio, che, manco a dirlo, ha i suoi problemi, primo tra tutti una pesantissima carenza di organico: i vigili in servizio sono meno della metà di quelli previsti. In queste condizioni non è facile tenere sotto controllo una città di quasi 180 mila abitanti, soprattutto quando c’è da far rispettare ordinanze mal digerite dai cittadini, come quella sul divieto di transito e sosta lungo corso Garibaldi. E del resto, il corpo già in passato aveva pagato a caro prezzo l’intransigenza di quelli decisi a fare fino in fondo il proprio dovere. Come quando, il 28 febbraio del 1985, l’agente Giuseppe Macheda era stato trucidato a colpi di fucile per il suo lavoro nel pool antiabusivismo.

Giuseppe era un vigile onesto, attento e rispettoso del suo ruolo e dell’Istituzione che rappresentava. Leale, disponibile, sempre presente e pronto a sostenere i colleghi in un periodo assai delicato per chi indossava la divisa. Aveva un forte senso del dovere e dell’appartenenza. I suoi colleghi ne hanno parlato come di un professionista serio, duro con le persone arroganti e prepotenti, ma comprensivo con le persone educate. Viveva con la sua famiglia - la moglie Paola e due splendide figlie, Lavinia e Maria - ad Arangea, un rione di Reggio nella XIV Circoscrizione, quartiere Gallina. Era una vita tutto sommato tranquilla e regolare la sua, fatta dei turni di servizio e dei suoi affetti più cari. Certo, il lavoro era impegnativo e a volte particolarmente stressante, ma era anche un lavoro in cui Giuseppe credeva. Quei primi giorni dopo l’entrata in vigore dell’ordinanza di chiusura al traffico del corso e il giro di vite voluto dall’amministrazione comunale, erano effettivamente più impegnativi del solito. C’era da fare uno sforzo per convincere i cittadini che davvero quella strada così centrale era più bella, da vedere e da vivere, se liberata dal caos del traffico. Forse anche Giuseppe se n’era reso conto di più e quella consapevolezza lo aveva indotto a porre ancora più attenzione nel suo lavoro a tutela del rispetto delle regole.

Il 16 aprile del 1993

Il 16 aprile del 1993 Giuseppe era in servizio proprio su corso Garibaldi. In pattuglia con lui c’era il collega Orazio Palamara, cinque anni più giovane di lui. A bordo della Ritmo di ordinanza, i due agenti erano arrivati in centro per vigilare sul rispetto dell’ordinanza. Bollettari alla mano, avevano elevato contravvenzioni e richiesto l’intervento del carro attrezzi per rimuovere di forza le auto parcheggiate lungo la strada, in spregio del divieto su cui pure, in quei giorni, si faceva un gran parlare. Erano circa le 20 di un venerdì sera, negozi ancora aperti e un gran passeggio. L’azione del killer fu fulminea nella sua violenza inaudita: 15 colpi di una pistola da guerra calibro 9x21, sparati a ripetizione e a distanza ravvicinata, tutti andati a segno. Marino ebbe la peggio. I soccorsi arrivarono quasi immediatamente per trasportare i due agenti agli “Ospedali Riuniti”. Orazio Palamara fu sottoposto a un delicato intervento chirurgico, grazie al quale i sanitari riuscirono a salvargli la vita. Per Giuseppe, invece, non ci fu nulla da fare.

La città fu sconvolta da un evento di tale barbarie. L’amministrazione comunale, alle prese con le proteste e le rimostranze dei colleghi di Giuseppe Marino, secondo agente ucciso in maniera così brutale in pochi anni, e con un clima di omertà che, immediatamente dopo l’omicidio, non aveva permesso agli inquirenti di raccogliere elementi utili alle indagini, fece affiggere un manifesto in cui invitava “tutta la popolazione a partecipare ai funerali di Marino come atto di ribellione contro la violenza e affermazione corale della città a voler cambiare”. Funerali che in un primo momento la famiglia Marino aveva scelto fossero celebrati ad Arangea, in forma strettamente privata, prima poi di accettare una funzione più solenne.

Vicenda giudiziaria

Gli investigatori non hanno dubbi: la matrice dell’omicidio deve essere riconducibile al lavoro di Giuseppe. Resta però da capire se si tratti della vendetta personale di qualcuno che si era ritenuto “offeso” dall’intransigenza dell’agente o se invece dietro l’omicidio vi fosse un disegno più ampio, ideato per lanciare un messaggio politico di carattere più generale. I resoconti giornalistici dell’epoca lasciano trasparire le difficoltà di arrivare a una ricostruzione dettagliata dell’accaduto. Alcuni giornalisti però mettono nero su bianco la parola ‘ndrangheta. Gli inquirenti si mettono al lavoro sui bollettari dei due vigili, convocando numerosi cittadini che, in quel periodo, erano stati multati per sottoporli al tampone adesivo che raccoglie le tracce di esplosivo presenti sulle mani di chi ha usato da poco tempo un'arma da fuoco. Ma le indagini non approdano a nulla di concreto. Pochi giorni dopo, arriva quella che sembra la svolta. La Squadra Mobile di Reggio Calabria arresta due fratelli di 27 e 22 anni, Antonio e Bartolo Votano, pregiudicati e affiliati alla cosca dei Libri, che gestisce le attività illecite nella zona centrale della città. Un anno prima, Antonio era stato multato da Giuseppe Marino e denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale. Un’accusa che gli era costata due anni e mezzo di carcere. Secondo gli inquirenti, dunque, Bartolo avrebbe vendicato l’affronto subito dal fratello ammazzando Marino. Ma l’accusa non regge al vaglio del processo e così i due vengono assolti per non aver commesso il fatto. Sembra un vicolo cieco, fin quando ad autoaccusarsi dell’omicidio è Giuseppe Calabrò, un collaboratore di giustizia che, per questo episodio, viene condannato come esecutore, pur senza aver mai chiarito nel dettaglio chi fossero gli eventuali mandanti e quale fosse il movente dell’omicidio.

Memoria viva

Per molti anni, il ricordo di questo giovane vigile urbano, ammazzato senza pietà nel salotto buono di Reggio Calabria, ha fatto fatica a diventare memoria collettiva. Poi il difficile lavoro di quanti si sono spesi per riannodare i fili della memoria ha cominciato a dare i suoi frutti. Il 16 luglio del 2014, su iniziativa di Libera, in piazza Castello è stato piantato un albero di alloro intitolato a Giuseppe Marino e al suo collega Giuseppe Macheda. Esattamente tre mesi più tardi, al termine della campagna “Il ricordo lascia il segno”, ai due agenti, riconosciuti entrambi vittime del dovere, viene intitolata la sede della Polizia Municipale di via Aldo Moro.

Voglio ringraziare tutti coloro che hanno raggiunto l’obiettivo comune di tenere viva la memoria di chi ha perso la vita e la cui unica colpa è di aver svolto il proprio dovere. In questo percorso ho incontrato persone straordinarie, sensibili, dei veri professionisti che ci sono stati vicini come il tenente Porcino che ci ha mostrato amicizia e profonda gratitudine e ha portato a termine una battaglia durata 10 anni.
Lavinia - figlia di Giuseppe in occasione dell'intitolazione