La vita di Giuseppe Aldo Felice Alfano, per tutti Beppe, ha avuto un unico centro di gravità: Barcellona Pozzo di Gotto, grosso comune di oltre 40 mila abitanti a una cinquantina di chilometri da Messina. Attorno a questo centro di gravità, alla sua vita politica, alle dinamiche mafiose e agli intrecci indicibili tra politica, massoneria e criminalità organizzata, si è dipanata la giovane vita di questo professore di educazione tecnica con la passione per il giornalismo. Un giornalismo attento e documentato, coraggioso e fastidioso.
Beppe era nato il 4 novembre del 1945 a Barcellona, dove era cresciuto e si era formato fino agli anni dell’università, quando aveva scelto di iscriversi alla Facoltà di Economia e Commercio di Messina. Qui aveva conosciuto Mimma Barbaro, che sarebbe poi diventata sua moglie e la madre dei suoi tre figli. La morte del padre interruppe il suo percorso di studio e lo portò lontano dalla sua terra, a Cavedine, un paesino della Valle dei Laghi non lontano da Trento. Fu qui, a 1300 chilometri da casa, che Beppe si diede all’insegnamento dell’educazione tecnica nella scuola media del paese. Lavoro che scelse di continuare a fare anche quando, nel 1976, decise di fare ritorno in Sicilia e a Barcellona. Sono gli anni in cui il suo impegno sociale e politico si accresce ulteriormente. Era un uomo di destra, vicino alle idea di Ordine Nuovo e del Movimento Sociale Italiano. Ma soprattutto era curioso Beppe. Curioso e testardo nella ricerca della verità. Un carattere fiero e leale, un intuito e un fiuto particolarmente spiccati. Doti che, unite a una buona dose di coraggio, lo portarono a seguire quella sua viscerale passione per il giornalismo.
La passione per il giornalismo
Cominciò dalla radio per poi passare, negli anni Ottanta, alle televisioni private. Dagli schermi di Radio Tele Mediterranea, Canale 10 e Telenews, di proprietà di Antonio Mazza, raccontava la sua terra. E, raccontando quella terra, finiva inevitabilmente per raccontarne anche la sua principale malattia: la mafia. Si occupava di politica e di cronaca. Che spesso, in terra di mafia, coincidono. Contrabbando di sigarette e traffico di droga erano stati, sin dagli anni Settanta, i principali affari della mafia barcellonese. Poi, nel decennio successivo, un salto di qualità, che spinse Cosa nostra a intrecciare rapporti di più alto livello, a cercare connivenze e complicità, a stringere relazioni perverse con chi poteva garantirle affari, ricchezza e potere. I lavori per il raddoppio della linea ferroviaria e per la costruzione dell’autostrada Messina Palermo erano un’occasione molto ghiotta, che la mafia non poteva lasciarsi sfuggire e che anzi finirono con l’alimentare smanie di autonomia e di grandezza, spingendo qualcuno a cercare addirittura di affrancarsi da chi da sempre dominava il territorio. Ci provò Pino Chiofalo, prima di essere arrestato e di vedere ammazzati tutti i suoi uomini. I sopravvissuti ritornarono tra i ranghi di quella mafia barcellonese che intanto stringeva rapporti sempre più intensi con le cosche catanesi, e in particolare con quella di Nitto Santapaola. Lui in persona aveva affidato a Giuseppe Gullotti, detto "l'avvocaticchio", fidanzato con la figlia del boss di Barcellona Ciccio Rugolo, il ruolo di coordinare l’ala militare barcellonese. Ma Galluccio era diventato qualcosa di più, riuscendo ad accreditarsi come l’uomo chiave nella gestione degli intrecci di interesse tra i poteri criminali, quelli istituzionali e finanche dei rappresentanti del potere giudiziario e delle forze dell'ordine.
In questo scenario, Beppe affina sempre di più le sue doti di giornalista investigativo. È deciso a indagare quegli intrecci di potere. Punta gli occhi sulla vicenda del raddoppio ferroviario, dei contributi in agricoltura e di altre questioni nelle quali fiuta la puzza degli interessi mafiosi. Come nel caso dell’AIAS, un'associazione benefica che si occupa di assistenza agli spastici. Ne scrive senza riserve sulle pagine de La Sicilia, di cui nel 1991 diventa corrispondente. Poi, verso la fine del 1992, una nuova pista lo porta su una strada particolarmente pericolosa. Si convince che Santapaola si nasconda a Barcellona e prova a mettersi sulle sue tracce. Sa di rischiare grosso, ma non si ferma.
L’8 gennaio del 1993
Intorno alle 22.00 dell’8 gennaio 1993 Beppe è a bordo della sua Renault rossa. Sta percorrendo via Marconi per tornare a casa. Accanto a lui c’è Mimma. Per strada si rende conto che qualcosa non va, ma non ne fa parola con sua moglie. La accompagna sotto casa e le chiede di salire e di restarci. Poi si allontana senza dare più notizia di sé. Poco più tardi sua figlia Sonia, allora ventenne, è al telefono con i colleghi di suo padre. Lo cercano per chiedergli di correre a pochi metri da casa sua: c’è stato un omicidio, ma la Polizia non ha ancora reso note le generalità della vittima. Poi una voce in lontananza: “il cognome è Alfano”. È Beppe. Tre colpi di una calibro 22 lo hanno colpito alla testa e al torace, senza lasciargli scampo. A 48 anni.
La famiglia non ha mai smesso di lottare. Lo fa tuttora in particolare Sonia, che continua a chiedere verità sulla morte del padre e sui mandanti occulti di quel barbaro omicidio e che intanto ha intrapreso anche un percorso di impegno politico che l’ha portata, dal 2009 al 2014, a sedere tra i banchi del Parlamento europeo.
Vicenda giudiziaria
La macchina del fango si mette in moto, come accade spesso per depistare le indagini sui morti ammazzati dalla mafia. Ombre e depistaggi che accompagnano tutta la storia giudiziaria legata all’omicidio di Beppe Alfano. Una storia non ancora finita e di cui non è per nulla semplice seguire gli sviluppi. Nel novembre del 1993 finiscono in cella Nino Mostaccio, presidente dell’AIAS e considerato dagli inquirenti il mandante dell’omicidio, Nino Merlino, ritenuto uno dei killer, e "l'avvocaticchio" Giuseppe Gullotti, cui sarebbe stato demandato il ruolo di organizzare l’omicidio del giornalista scomodo.
Nel 1996, la Corte d'Assise di Messina emette la sentenza di condanna a 21 anni e 6 mesi per Nino Merlino, ma assolve Gullotti e Mostaccio. Nel febbraio del ‘98 la Corte d'appello di Messina conferma la condanna per Merlino e condanna a 30 anni di carcere anche Gullotti. La condanna di Merlino viene confermata anche in Cassazione, nell’aprile del 2006.
Negli anni successivi le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico, ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, fanno iscrivere nel registro degli indagati Stefano Genovese e Basilio Condipodero, indicati dal collaboratore di giustizia come il sicario e il basista dell'omicidio. Gullotti intanto chiede la revisione del processo.
Recentemente è stato archiviato il processo a carico di Genovese e Condipodero, ma la GIP del Tribunale di Messina contestualmente ha disposto nuove indagini, ritenendo necessario fare alcuni approfondimenti sull’arma del delitto, che è stata ritrovata. Una trama fittissima fatta i colpi di scena, intrighi, depistaggi, che ancora oggi non ha riconosciuto una verità piena sulla morte di Beppe Alfano.
Memoria viva
La memoria di Beppe è da sempre mantenuta viva dai suoi famigliari, tanti sono stati negli anni gli approfondimenti su questa storia.
Nel 2004, lo scrittore Carlo Lucarelli ha pubblicato con Einaudi il libro Beppe Alfano, in Nuovi misteri d'Italia. I casi di Blu Notte. Mentre nel 2003, aveva già affrontato e approfondito la storia di Beppe durante la trasmissione da lui condotta "Blu notte".
Nel 2005 è stato pubblicato il libro “Ammazzate Beppe Alfano” di Valeria Scafetta; mentre la figlia Sonia nel 2011 ha pubblicato con la Rizzoli il libro “La Zona d'ombra”.
ResistenzaLibera ha scritto una canzone dedicata a Beppe e Sonia, "Quello stesso desiderio".
Un padre straordinariamente presente con cui si poteva discutere di tutto e parlare liberamente. Una persona normale, con i suoi pregi e i suoi difetti. Testardo e determinato, buono e altruista. Aveva un profondo rispetto per le idee altrui ed era sempre aperto al confronto.