Giuseppe Borsellino nasce a Lucca Sicula nel 1938, la sua famiglia è originaria di Ribera. E’ una di quelle famiglie in cui il lavoro da sempre rappresenta una fonte di riscatto dalla povertà. Sin da bambino, infatti, Giuseppe aiuta come può i suoi genitori per poter portare il pane in tavola. Si sposa giovanissimo, a soli 18 anni, con una sua coetanea, Calogera. Non sta mai fermo perché sente forte quel senso di responsabilità che lo porta a prendersi cura della sua famiglia onestamente, svolge diversi lavori tra cui anche l’autotrasportatore, prova l’esperienza di emigrare in Germania, vende salumi. Tutto ciò che può permettergli di “portare il pane in tavola” onestamente, come aveva imparato dai suoi genitori.
Una vita dedicata al benessere dei suoi figli, con tanti sacrifici Giuseppe e Lilla riescono anche ad aiutare Pasquale a trasferirsi in Veneto per studiare psicologia. A metà degli anni Ottanta Giuseppe affronta una nuova sfida per aiutare anche Paolo, il primogenito, a far nascere una propria impresa di calcestruzzi. Vende il bar con la rivendita di tabacchi nella piazza principale di Lucca Sicula, che aveva gestito fino ad allora e investe i pochi risparmi nella “Lucca Sicula Calcestruzzi srl”. Giuseppe e Paolo non sono solo i titolari dell’impresa, ma sono prima di tutto operai. La fatica non gli spaventa, sono cresciuti tra la polvere e il cemento e si dedicano anima e corpo in questa attività. Per loro rappresenta tutto: l’investimento dei risparmi di una vita e la possibilità di creare un futuro per suo figlio e i suoi nipoti. Le macchine e le attrezzature per l’operatività dell’impianto le acquistano con le cambiali e lo stesso Pasquale li aiuta come può.
La neonata impresa di calcestruzzi conta quattro operai, dispone di un capitale minimo e di certo non ambisce a conquistare nessuna posizione dominante nel panorama imprenditoriale della zona. Non partecipano a gare d’appalto pubbliche, ricevono lavori solo da privati. Certo, sono preoccupati dai debiti che hanno contratto per avviare la loro attività, ma non si sentono schiacciati. Sono anni in cui in questo piccolo centro dell’agrigentino sta arrivando un fiume di denaro per i lavori pubblici: 200 miliardi di lire nel decennio che va dal 1980 al 1990. Soldi pubblici spesi per costruire fontane senza acqua, un ospizio mai collaudato, strade grandi come autostrade che finiscono nei campi. É un vero e proprio comitato d’affari che si spartisce i lavori e partecipa agli appalti, l’impresa dei Borsellino però é sempre tagliata fuori.
Ricevono una prima offerta di 150 milioni di lire per rilevare la loro impresa da Stefano Radosta, boss della mafia della montagna, un tentativo di infiltrarsi in questa impresa pulita da parte della criminalità organizzata. Ma l’offerta é subito rifiutata, é un’offesa nei loro confronti. Quell’impresa per loro é tutto e mai l’avrebbero ceduta. Non si piegano neanche davanti alle prime minacce, ai primi atti intimidatori. Come quella volta in cui trovano tutti gli alberi di pesco di un loro terreno a Bivona tagliati. E neanche quando bruciano un camion della loro azienda.
Forse padre e figlio hanno capito bene quali sono gli interessi di chi vuole acquistare la loro impresa o forse non se ne sono resi conto. Resistono, cercando di difendere il proprio lavoro. Ma sono fortemente indebitati e nel 1991 si trovano costretti ad accettare una nuova offerta da parte di alcuni uomini di Burgio. I nuovi soci dell’impresa si chiamano Sala Calogero, Davilla Mario, Galifi Pietro, Polizzi Paolo. Ma la pressione che ricevono è forte, ed è continua, Paolo continua a ribellarsi e a opporsi alle scelte dei nuovi soci.
Le pressioni per abbandonare l’impresa non sono più tanto implicite, e più volte, anche davanti ad altre persone, Giuseppe e Paolo sono minacciati dagli altri soci.
Il 21 aprile del 1992
Quella sera Paolo deve finire un lavoro di cementificazione di uno spiazzo, ma si é fatto tardi e ancora non é rientrato a casa. Giuseppe va a cercare il figlio, preoccupato di non vederlo tornare. A poche centinaia di metri da casa di Paolo, nota la Panda che utilizzano per lavorare parcheggiata in un cortile e mentre si avvicina, si accorge che dal finestrino spuntano le gambe di suo figlio. Non ha il coraggio di avvicinarsi e cerca subito aiuto. In quell’auto parcheggiata c’é il corpo senza vita di suo figlio Paolo. Ucciso con un colpo al cuore.
L’inchiesta é affidata al sostituto procuratore della Repubblica di Sciacca, Morena Plazzi, una giovanissima magistrata che é di turno quella notte. Giuseppe non accetta in silenzio l’uccisione del figlio, inizia immediatamente a collaborare con gli organi inquirenti, a raccontare tutto quello che sa e delle richieste e delle minacce che hanno ricevuto. Inizialmente, infatti, il delitto é stato classificato come passionale. Ma nessuno dei familiari di Paolo ci ha mai creduto a questa versione. Giuseppe ricostruisce con i magistrati gli intrecci tra mafia, affari e politica nel comune di Lucca Sicula e fa nomi e cognomi.
E’ disperato per l’omicidio del figlio, si lascia crescere la barba e i capelli, che improvvisamente diventano bianchi. Non ottiene alcun tipo di protezione nonostante la sua collaborazione, non è un “pentito”. L’unica cosa che la Prefettura gli concede per proteggersi é l’autorizzazione al porto d’armi per una pistola. E’ soltanto un uomo onesto che vuole giustizia per il figlio, che non cerca la vendetta facendosi giustizia da sé.
Presto, però, le voci iniziano a circolare in paese e tutti sono a conoscenza dell’aiuto che sta fornendo ai magistrati. E non solo, perché Giuseppe ha contattato anche la Commissione antimafia, il Centro Studi Impastato, le associazioni, capitani dei carabinieri.
Il 17 dicembre del 1992
É consapevole del rischio che sta correndo tanto da dire a sua figlia Antonella che si sente un morto che cammina. E infatti, alle 4 del pomeriggio del 17 dicembre dello stesso anno é ucciso nella piazza centrale di Lucca Sicula, davanti al bar che aveva gestito per tanti anni, davanti a un gruppo di bambini che giocano. Si ferma per dare la precedenza a due ragazzi che arrivano a bordo di una moto, senza sapere che sono i due che hanno il compito di ucciderlo. Un monito, un messaggio chiaro rivolto a tutti coloro che sapevano e che avrebbero potuto seguire il suo esempio, collaborando con la magistratura.
Un omicidio plateale, furono 37 colpi di kalashnikov che gli scaricarono addosso.
Giuseppe aveva 54 anni.
Vicenda giudiziaria
Da subito gli organi inquirenti capiscono che i due omicidi sono collegati e che Giuseppe é stato ucciso per la sua collaborazione con i magistrati. Nel ‘93 nel corso dell’operazione antimafia “Avana 2” sono arrestati un impiegato della Cancelleria di Sciacca e gli agenti di scorta del magistrato a cui Giuseppe si rivolgeva. Tra gli arrestati anche Salvatore Di Gangi, boss di Sciacca e considerato uomo di fiducia di Totò Riina, imprenditore del ramo calcestruzzi. I quattro soci dell’impresa di Paolo e Giuseppe sono arrestati e scarcerati subito dopo per mancanza di prove. Per la morte di Giuseppe c’è una sentenza definitiva di condanna per un responsabile, ma non per il mandante tuttora sconosciuto.
Per l’omicidio di Paolo non c’è mai stato un processo, né gli esecutori né i mandanti sono stati mai individuati, omicidio archiviato a carico di ignoti. Nel 1994 Giuseppe e Paolo furono riconosciuti dal Ministero dell’Interno vittime innocenti di mafia, ma nel 2001 a Paolo fu revocato il riconoscimento. Questa decisione fu presa perché Salvatore Inga, collaboratore di giustizia, aveva dichiarato che i Borsellino non erano estranei agli ambienti mafiosi. La Cassazione nel 2004 emise una sentenza con la quale dichiarava inattendibile la collaborazione di Inga. Nonostante ciò, la Prefettura di Agrigento nel 2014 ha rigettato l’istanza presentata dalla famiglia Borsellino per il riconoscimento di vittima innocente di mafia di Paolo.
La sua famiglia non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia per il suo omicidio.
Memoria viva
Il presidio di Libera a Verona è dedicato alla memoria di Giuseppe e Paolo, così come quello di Santa Margherita Belice e Montevago.
Nel 1993 nel corso della trasmissione “Il rosso e il nero” di Michele Santoro, Pasquale e Antonella furono intervistati per raccontare ciò che era successo al padre e al fratello.
Benny Calasanzio Borsellino, il figlio di Antonella, ha realizzato nel 2008 delle interviste sull'omicidio di suo zio e di suo nonno a Lucca Sicula.
Raccontare la storia di mio padre e di mio fratello è importante, è un modo per ricordare due persone dimenticate da tutti e chiedere che venga fatta giustizia.