21 aprile 1992
Lucca Sicula (AG)

Paolo Borsellino

Non aveva solo in comune il nome con il magistrato del pool antimafia, ma anche il 1992. L'anno in cui entrambi furono uccisi dalla mafia, a soli tre mesi di distanza l'uno dall'altro. Un piccolo imprenditore dell'agrigentino che aveva cercato in ogni modo di mantenere "pulita" la sua impresa, di non scendere a patti con chi gestiva gli appalti.

Paolo Borsellino era nato e cresciuto a Lucca Sicula, un piccolo paese dell’agrigentino a circa 100 chilometri da Palermo. La famiglia Borsellino era una famiglia semplice, di lavoratori onesti. Giuseppe e Calogera, i genitori di Paolo, per anni avevano gestito il bar nella piazza principale di Lucca. Con la loro attività avevano cresciuto i loro tre figli, Paolo, Pasquale e Antonella. Con tanti sacrifici erano riusciti anche a permettere a Pasquale di andare via dalla Sicilia per studiare psicologia, in Veneto. Una vita di sacrifici per non far mancare nulla ai propri figli.

Avevano deciso di vendere il bar con annessa la rivendita di tabacchi per avviare un’impresa. Giuseppe voleva aiutare il figlio, aiutarlo a costruire un futuro anche per i suoi nipoti. Paolo si era sposato con una ragazza del paese, Enza. Avevano avuto anche due figli.
Così avevano investito i risparmi di una vita e fatto tanti debiti per rilevare un’impresa di calcestruzzi, una piccola impresa che non partecipava agli appalti per lavori pubblici, ma otteneva lavori solo da privati. Paolo e Giuseppe non erano solo i titolari della “Lucca Sicula Calcestruzzi srl”, ma erano essi stessi operai. Le macchine e le attrezzature per l’operatività dell’impianto le avevano acquistate con le cambiali e lo stesso Pasquale li aveva aiutati come poteva.
Paolo sognava in grande, stava realizzando il suo progetto di vita, di diventare imprenditore di sé stesso. Nonostante i debiti, non si lasciava abbattere e cercava in tutti i modi di mandare avanti l’impresa. Anche quando iniziarono ad arrivargli le prime offerte per venderla, lui le aveva subito rifiutate, non voleva cedere ciò che con la sua famiglia, insieme, avevano costruito. Non si erano piegati neanche davanti alle prime minacce, ai primi atti intimidatori. Come quella volta in cui trovarono tutti gli alberi di pesco di un loro terreno a Bivona tagliati, neanche quella volta si erano piegati. E neanche quando bruciarono un camion della loro azienda.

Quelli erano anni in cui in questo piccolo centro dell’agrigentino era arrivato un fiume di denaro per i lavori pubblici: 200 miliardi di lire nel decennio che va dal 1980 al 1990. Soldi pubblici spesi per costruire fontane senza acqua, un ospizio mai collaudato, strade grandi come autostrade che finivano nei campi. Era un vero e proprio comitato d’affari che si spartiva i lavori e partecipava agli appalti, l’impresa dei Borsellino però era sempre tagliata fuori. Forse Paolo e Giuseppe avevano capito bene quali erano gli interessi di chi voleva acquistare la loro impresa o forse non si erano resi conto del rischio che correvano. Avevano resistito sempre, cercando di difendere il loro lavoro. Erano fortemente indebitati e nel 1991 ricevettero l’offerta di Stefano Radosta, boss della mafia della montagna e si trovano costretti ad accettarla, facendo entrare nuovi soci nell’impresa. Ma la pressione che ricevono è forte, ed è continua, Paolo continua a ribellarsi e a opporsi alle scelte dei nuovi soci.

Il 21 aprile del 1992

Quella sera Paolo doveva finire un lavoro di cementificazione di uno spiazzo, ma si era fatto tardi e ancora non era rientrato a casa. Giuseppe andò a cercare il figlio, preoccupato di non vederlo tornare. A poche centinaia di metri da casa di Paolo, notò la Panda che utilizzavano per lavorare parcheggiata in un cortile e mentre si avvicinava, si accorse che dal finestrino uscivano le gambe di suo figlio. Non ebbe il coraggio di avvicinarsi e cercò subito aiuto. In quell’auto parcheggiata c’era il corpo senza vita di suo figlio Paolo. Ucciso con un colpo al cuore. Non aveva ancora compiuto 32 anni, i suoi figli avevano uno 16 mesi e l’altro tre anni.

Vicenda giudiziaria

L’inchiesta venne affidata al sostituto procuratore della Repubblica di Sciacca, Morena Plazzi, una giovanissima magistrata che era di turno quella notte. Giuseppe iniziò immediatamente a collaborare con gli organi inquirenti, a raccontare tutto quello che sapeva e delle richieste e delle minacce che avevano ricevuto. Inizialmente infatti il delitto era stato classificato come passionale. Ma nessuno dei familiari di Paolo ci aveva mai creduto a questa versione. Giuseppe ricostruisce con i magistrati gli intrecci tra mafia, affari e politica nel comune di Lucca Sicula. E’ disperato per l’omicidio del figlio, si lascia crescere la barba e i capelli, che improvvisamente diventano bianchi. Non ottiene alcun tipo di protezione nonostante la sua collaborazione, non è un “pentito”. E’ soltanto un uomo onesto che vuole giustizia per il figlio, che non cerca la vendetta facendosi giustizia da sé. Era consapevole del rischio che stava correndo e infatti, alle 4 del pomeriggio del 17 dicembre dello stesso anno fu ucciso nella piazza centrale di Lucca, davanti al bar che aveva gestito per tanti anni, davanti a un gruppo di bambini che giocavano. Un monito, un messaggio chiaro rivolto a tutti coloro che sapevano e che avrebbero potuto seguire il suo esempio, collaborando con la magistratura.

Per l’omicidio di Paolo non c’è mai stato un processo, né gli esecutori né i mandanti sono stati mai individuati, omicidio archiviato a carico di ignoti. Nel 1994 Giuseppe e Paolo furono riconosciuti dal Ministero dell’Interno vittime innocenti di mafia, ma nel 2001 a Paolo fu revocato il riconoscimento. Questa decisione fu presa perché Salvatore Inga, collaboratore di giustizia, aveva dichiarato che i Borsellino non erano estranei agli ambienti mafiosi. La Cassazione nel 2004 emise una sentenza con la quale dichiarava inattendibile la collaborazione di Inga. Nonostante ciò, la Prefettura di Agrigento nel 2014 ha rigettato l’istanza presentata dalla famiglia Borsellino per il riconoscimento di vittima innocente di mafia di Paolo.
La sua famiglia non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia per il suo omicidio.

Memoria viva

Il presidio di Libera a Verona è dedicato alla memoria di Giuseppe e Paolo, così come quello di Santa Margherita Belice e Montevago.
Nel 1993 nel corso della trasmissione “Il rosso e il nero” di Michele Santoro, Pasquale e Antonella furono intervistati per raccontare ciò che era successo al padre e al fratello.
Benny Calasanzio Borsellino, il figlio di Antonella, ha realizzato nel 2008 delle interviste sull'omicidio di suo zio e di suo nonno a Lucca Sicula.

Io penso che le storie di mio padre e di mio fratello non andranno a finire sui libri di storia. Ma penso possano essere una storia paradigmatica, significativa per raccontare questo Paese che è l’Italia attraverso gli occhi di persone molto umili.
Pasquale - fratello e figlio di Paolo e Giuseppe