Papillon. Si chiamava così, con questo nome un po’ strano, quel negozio di gioielli, pellicce e abiti da sposa che la famiglia Frazzetto - Azzolina aveva aperto da qualche anno in via Terracina, a Niscemi, in provincia di Caltanissetta. Si trovava al pian terreno di un fabbricato di quatto piani costruito nei primi anni ’80. All’epoca, Salvatore Frazzetto, suo marito, lavorava nell’edilizia e aveva deciso di tirare su una casa per sé e la sua famiglia. Lo stabile era in fondo al paese, a poche decine di metri dal Commissariato di Polizia. Un presidio di legalità in una terra difficile, dilaniata da una presenza mafiosa asfissiante: morti ammazzati, estorsioni, bombe e incendi dolosi. Un clima irrespirabile, che nel 1992 aveva portato anche allo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.
E tuttavia, la famiglia di Salvatore, una di quelle della media borghesia, aveva pensato comunque di investire a Niscemi, in un’attività commerciale tra le più grandi della zona. Prima la pelletteria, poi i gioielli, gli abiti da sposa, le pellicce. Il negozio funzionava. Ci lavorava insieme a suo marito Salvatore e al loro primo figlio Giacomo, che tutti chiamavano Mimmo. La figlia più piccola, Chiara, aveva invece deciso di frequentare l’università a Catania, ma tornava a casa ogni volta che poteva.
In terra di mafia però la libertà d’impresa a volte può essere davvero un’utopia. E anzi, più le cose vanno bene, più ti devi aspettare che, da un momento all’altro, qualcuno venga a bussare alla porta del tuo negozio. E non solo per chiederti soldi. Perché le estorsioni si possono anche mascherare, pretendendo per esempio di portare via la merce senza pagare. A Salvatore e Agata era accaduto proprio questo. Loro però avevano sempre resistito, non si erano mai davvero piegati a quella che appariva una cosa normale a Niscemi, dove in tanti non nascondevano, neanche per pudore, quella prassi, quella assurda consuetudine. Loro no, non volevano accettarlo.
Il 16 ottobre del 1996
Il 16 ottobre del 1996 è una data centrale nella storia di questa famiglia, e, in particolare, nella storia di Agata. È la data che cambia il destino di questa donna, che le stravolge l’esistenza, le toglie il sorriso, l’allegria, la forza. Tutti tratti tipici della sua personalità. Quel giorno due pregiudicati entrarono nella gioielleria. Agata li conosceva, perché li aveva visti già bazzicare in giro. Avevano fatto anche degli acquisti in passato, sempre utilizzando modalità strane: assegni, crediti, qualche pezzo di oreficeria sparito. Forse però, più di lei, li conosceva Salvatore, che in più circostanze, era rimasto turbato dalla loro presenza. I due chiesero di vedere delle fedi nuziali. Nonostante tutto, Salvatore li servì, mentre Agata era seduta in poltrona a sfogliare una rivista di abiti da sposa. Chiese a Giacomo di prendere le fedi dalla cassaforte e gliele mostrò. Poi d’improvviso accadde l’irreparabile. Salvatore comprese che quei due non avrebbero voluto pagare, pur pretendendo di portare via i gioielli. Si oppose, gridò. La reazione dei malviventi fu violentissima: spintoni, calci, schiaffi. Agata iniziò a urlare e Giacomo accorse per capire cosa stesse succedendo. Uno dei due impugnava la pistola che custodivano nel negozio. L’arma però era stata strappata dalle mani di Salvatore. Il primo colpo. Poi Agata riuscì a uscire dal negozio e chiedere aiuto. Il secondo, il terzo colpo, la fuga dei malviventi. Quando Agata rientrò, i corpi di Salvatore, 46 anni, e Giacomo, 23, erano stesi sul pavimento, senza vita.
Per Agata fu l’inizio della fine. Un dolore insopportabile, le immagini di quella sera scolpite nella mente che non le davano pace. Cercò di aggrapparsi all’amore per sua figlia, di non cedere allo sconforto, di continuare il suo lavoro. Indicò agli inquirenti i nomi degli assassini, Saltare e Maurizio Infuso, 26 e 23 anni, che furono arrestati poche ore dopo in un casolare di campagna, con ancora nella borsa la pistola utilizzata per uccidere Salvatore e Giacomo. Ma era tutto enormemente difficile. Difficile come continuare a sopportare le intimidazioni, le minacce e le violenze che neanche quella tragedia e tutto quel dolore avevano interrotto. Aggressioni regolari che non si fermavano di fronte a niente, neanche di fronte alla tutela che era stata assegnata alla donna, sotto la cui casa stazionavano due militari. L’ultimo giorno dell’anno, l’ennesimo atto di violenza nel suo negozio: ancora una volta calci, schiaffi, richieste di soldi e silenzio. Per Agata la vita era diventata un inferno.
Il 22 marzo del 1997
La notte tra il 22 e il 23 marzo del 1997 Chiara, allora ventunenne, rientrò a casa intorno alle 2.30, dopo una serata trascorsa in pizzeria con gli amici. Arrivò in cucina e vide il corpo senza vita di sua madre, appeso a una corda fissata su una trave del soffitto. Agata si era impiccata, sopraffatta dal dolore, a 43 anni. Vittima anche lei della violenza mafiosa. Sul tavolino, ritagli di giornale, foto e un biglietto: “Perdonami Chiara, ma non ce la faccio più. Lascia questo paese maledetto”. Un ultimo disperato invito rivolto a sua figlia, affinché provasse a scappare dal vuoto e dalla solitudine cui lei non aveva saputo resistere. Il giorno prima del gesto estremo, a Niscemi si erano radunate migliaia di persone per fare memoria delle vittime innocenti delle mafie. Accanto a loro, i vertici del Governo. Ma Agata aveva scelto di non scendere in piazza.
Per il giorno dei funerali il sindaco proclamò il lutto cittadino. Eppure anche per i funerali questa donna fu lasciata sola: negozi aperti, poco clamore, facce indifferenti, pochissimi rappresentanti delle Istituzioni. Le parole di Chiara, il suo grido disperato, le accuse allo Stato: tutto assorbito come se nulla fosse. Perché al più presto, a Niscemi, si tornasse alla “normalità”.
Memoria viva
Il nome di Agata è stato aggiunto, insieme a quello di Salvatore e Giacomo, all’elenco delle vittime innocenti curato da Libera e letto ogni anno, nel corso della Giornata della memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia, perché è la violenza mafiosa ad aver ucciso questa donna minuta ma coraggiosa, sopraffatta dal dolore, dall’indifferenza, dalla solitudine. La sua memoria vive in alcuni luoghi a lei intitolati e nell’impegno di chi continua a raccontarne la storia, perché resista al tempo e alla dimenticanza. Tra loro, anzitutto Chiara, privata giovanissima dell’amore della sua famiglia e oggi testimone di un dolore che può diventare impegno e speranza.
Nell’ambito del Progetto realizzato da Libera con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le Pari Opportunità, che ha coinvolto alcuni studenti nel raccontare attraverso la scrittura storie di donne vittime della criminalità, la Classe III C liceo "Regina Elena" di Catania ha scelto Agata e lo ha fatto attraverso il racconto "Una storia di dolore e di coraggio".