11 ottobre 1983
Maddaloni (CE)

Francesco Imposimato

Una «vendetta trasversale» concordata tra Banda della Magliana, Cosa Nostra e clan dei casalesi, volta a colpire il lavoro di suo fratello Ferdinando e della magistratura romana, e a tacitare le voci, come quella di Franco, di sollecitazione civile per la tutela del patrimonio ambientale e culturale del territorio.

Nato a Maddaloni (CE) nel 1939, Franco Imposimato era un sindacalista della CGIL, impiegato presso la FACE Standard, fabbrica manifatturiera dove lavorava anche la moglie, Maria Luisa Rossi, dalla quale aveva avuto due figli, Giuseppe e Filiberto.

Era profondamente legato alla sua terra, attorno alla quale facevano perno alcuni interessi cui si dedicava attivamente: quello per la politica, che lo vedeva impegnato nel sindacato e nella sezione locale del PCI, e quello per l’arte, l’archeologia e l’ambiente. Interessi testimoniati dalle fotografie e soprattutto dai dipinti, prevalentemente in bianco e nero, a inchiostro di china, con i quali Franco raffigurava spesso angoli, paesaggi ed articolazioni architettoniche della sua città, in cui amava passeggiare.

Da giovane aveva trascorso sette anni in Sudafrica, presso lo zio Filiberto che là aveva avviato un’attività, frequentando una scuola di formazione artistica e così sviluppando la propria tecnica. Tornato a Maddaloni, continuò a coltivare la passione per la pittura e sviluppò quella per la ricca storia della città e del territorio corrispondente all’antica Calatia, che vanta testimonianze di insediamenti di antiche civiltà e delle loro espressioni artistiche. Il profondo legame con la propria terra lo condusse ad attivarsi tra i fondatori del Gruppo Archeologico Calatino e a dedicarsi con grande generosità alle iniziative di valorizzazione culturale ed ambientale promosse nel territorio, oggetto, soprattutto dopo il terremoto del 1980 e l’avvio della ricostruzione, di un imponente e incontrollato sfruttamento industriale, in particolare consistente nell’attività estrattiva sui monti Tifatini, che stava alterando la fisionomia del paesaggio locale ed attirava gli interessi economici dei gruppi camorristici locali.

Suo fratello Ferdinando era giudice istruttore a Roma, dove, nel 1983, aveva depositato la prima e la seconda sentenza del processo sull'omicidio di Aldo Moro di cui scoprì la prigione. Seguiva diversi processi di mafia e indagava sulla Banda della Magliana, avvicinandosi a verità scomode. Stava svelando i legami con la politica e le sue alleanze romane. Indagando sulla morte di Domenico Balducci, pregiudicato romano associato ai siciliani di Porta Nuova, stava per scoprire l’identità di Don Mario Aglialoro: Pippo Calò, capo famiglia di Porta Nuova a Palermo, cassiere di Cosa Nostra a Roma, perseguito da mandato di cattura di Giovanni Falcone.

11 ottobre 1983

Nel pomeriggio dell’11 ottobre 1983, terminato il turno di lavoro intorno alle 17.30, Franco e Maria Luisa si diressero in auto verso la scuola dei figli, allora di 9 e 7 anni, che aspettavano i genitori per rientrare con loro a casa al termine delle lezioni pomeridiane. Poco dopo la partenza dalla fabbrica, Franco dovette rallentare la marcia, fino quasi a fermarsi, poiché un’auto ostruiva il passaggio presso la curva in via Campolongo, all’incrocio tra via Sauda e via Montevergine. In quel momento, senza che Franco e Maria Luisa potessero accorgersi di ciò che stava per accadere, due uomini si avvicinarono rapidamente alla loro Ford Escort. Maria Luisa si voltò verso i sedili posteriori. Ebbe modo di vedere il volto di uno dei due assassini. Poi, in pochi istanti, Franco fu colpito da undici colpi di arma da fuoco, che lo uccisero quasi immediatamente. Anche Maria Luisa fu colpita e ferita gravemente: riuscì ad aprire lo sportello della macchina prima di cadere svenuta a pochi passi, dove fu ritrovata da alcuni militari che si trovavano in servizio nella zona e riuscirono anche ad individuare la targa della Fiat Ritmo.

Durante il ricovero ospedaliero di Maria Luisa, durato più di un mese, i figli Giuseppe e Filiberto furono ospitati da una zia, sorella di Franco, e solo quando poterono rivedere la madre seppero dalle sue parole che il padre era stato ucciso. Quando la madre poté tornare da loro, la famiglia si trasferì in una nuova abitazione, poco distante dalla precedente, troppo ricca di ricordi per i bambini e per Maria Luisa, che serbò negli anni successivi con grande dignità il profondo dolore, fortemente segnata anche dalle conseguenze fisiche dei due colpi che l’avevano raggiunta.

Non andranno mai via i ricordi delle passeggiate che facevamo io e Filiberto con nostro padre…La mia mano piccola nella sua grande mano è una sensazione che ricordo bene. Mi stringevo a lui forte forte, per evitare che mi lasciasse. Ma qualcuno ci portò via nostro padre. Come se a me e a Filiberto avessero tagliato per sempre un pezzo del nostro corpo. Fa male. Troppo male.
Giuseppe Imposimato, figlio di Franco Imposimato

Vicenda giudiziaria

Sin dal giorno dell’omicidio, la morte di Franco appariva collegata alle attività del fratello Ferdinando come giudice istruttore del Tribunale di Roma, che si era occupato del sequestro e omicidio di Aldo Moro, di gruppi criminali di stampo camorristico e stava indagando sul circuito criminale della banda della Magliana, in particolare del pregiudicato romano Domenico Balducci. La delicatezza dei procedimenti che lo vedevano impegnato, suggerì da subito che l’omicidio di Franco costituisse un atto intimidatorio il cui destinatario doveva ricondursi al lavoro di suo fratello e alla magistratura inquirente romana.

Ciò è testimoniato dagli atti della seduta del 21 ottobre 1983 della Camera dei Deputati, durante la quale si svolse un’interpellanza e più interrogazioni parlamentari ai Ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia, aventi ad oggetto l’agguato a Franco Imposimato e alla moglie. L’onorevole Luciano Violante sottolineò come l’assassinio di Franco Imposimato si inscrivesse nella svolta registratasi nei rapporti tra mafia, camorra e Stato nei mesi precedenti, costituendone un elemento fondamentale poiché si trattava "per la prima volta, dell’uccisione del fratello di un magistrato per intimorire quest’ultimo e la magistratura". Nonostante fosse chiaro sin da subito il legame tra l’assassinio di Franco e le attività investigative del fratello, tuttavia, le indagini passarono attraverso una prima fase di stallo, incertezza e depistaggi, denunciati da Violante nel suo intervento:

La morte di Franco Imposimato era stata annunciata, e il problema non era quello di fare vigilanza sotto casa sua, bensì di scoprire chi avesse interesse ad ucciderlo. In questa direzione, le indagini non sono state effettuate.
Luciano Violante

Il procedimento per l’accertamento delle responsabilità per l’assassinio di Franco Imposimato approdò ad una sentenza di primo grado solo nel 2000. La svolta significativa nell’individuazione degli esecutori e dei mandanti dell’agguato arrivò con le dichiarazioni, rese dieci anni dopo l’agguato, di Carmine Schiavone, primo “pentito” del clan dei casalesi.

Alla ricostruzione di quali interessi avevano mosso la decisione di intimorire la magistratura romana ed in particolare Ferdinando Imposimato, e quindi di chi fossero i mandanti dell’agguato a Franco Imposimato, contribuirono anche le dichiarazioni, relative ad incontri tra mafiosi e criminali romani in cui si discusse di organizzare l’uccisione del giudice Imposimato, rese nel 1994 dal mafioso Antonio Mancini nel procedimento contro Maurizio Abatino, esponente della banda della Magliana. Mancini riferì anche di essere stato informato dal romano Abbruciati, in occasione di quegli incontri, che una richiesta di progettare l’attentato al giudice Imposimato gli era pervenuta da «personaggi legati alla massoneria».

Nell’ambito del processo a Giulio Andreotti per l’omicidio di Mino Pecorelli fu poi accertato che ai colloqui sulla prospettiva di tendere un agguato direttamente a Ferdinando Imposimato avevano preso parte anche due esponenti dei servizi segreti militari.

Il processo si concluse nel 2002, con la sentenza della Corte di cassazione di condanna all’ergastolo di Antonio Abbate, di cui Maria Luisa Rossi riconobbe il volto, e Raffaele Ligato, esecutori del mortale agguato, e di Pippo Calò e Vincenzo Lubrano, mandanti dello stesso. Fu ricostruito come Pippo Calò avesse dato ordine al clan Lubrano-Nuvoletta, affiliato a Cosa Nostra, di uccidere Franco Imposimato. I casalesi accettarono l'incarico anche perché l'impegno ambientalista di Franco Imposimato, per quanto riguarda le cave abusive di Maddaloni, andava a scontrarsi con i loro interessi.

Memoria viva

Dopo la sua morte, a Franco è stato intitolato il Gruppo Archeologico Calatino, che lo ricorda tra i propri fondatori. La storia di Franco è stata raccontata in diversi libri, come La Bestia e Al di là della notte, scritti da Raffaele Sardo; Segreto criminale di Raffaella Notarile.

In questi anni, proprio sui ragazzi ho concentrato i maggiori sforzi di educazione alla legalità, nella quale le scuole sono ormai da anni impegnate, e dai ragazzi arrivano spesso i più grandi messaggi di speranza per un futuro in cui il “no” alle mafie diventi netto e defnitivo. (…) Impegno e memoria sono il seme della nuova speranza.
Giuseppe Imposimato, figlio di Franco Imposimato - “Il Mattino”, 15 ottobre 2021