Succede purtroppo molto spesso. “Qualcosa dovrà aver pur fatto per essere stato ucciso”. È una frase che ti entra dentro come il piombo assassino e ti costringe a un dolore doppio, lancinante, a volte infinito. I familiari di Gaspare hanno dovuto aspettare 12 anni perché questo dolore, almeno questo, avesse fine. L’altro, quello dovuto all’omicidio brutale di quest’uomo onesto e perbene, non è mai finito.
Gaspare Palmeri, classe 1930, era una persona assolutamente normale. Viveva con la sua famiglia a Castellammare del Golfo, una splendida località di mare a una cinquantina di chilometri da Trapani. Di lavoro faceva l’agente tecnico della Forestale, alle dipendenze della Regione Siciliana. Un lavoro onesto che gli consentiva di assicurare a sua moglie Anna Badamo e ai suoi due figli, Giovanni e Filippo, una vita assolutamente dignitosa. C’era poco altro nella vita di Gaspare oltre al lavoro e alla famiglia. Il calcio era una sua passione e una delle poche distrazioni che si concedeva. Per il resto, le sue giornate trascorrevano assolutamente tranquille: sveglia molto presto al mattino e quel lavoro che amava e che da sempre svolgeva con passione e dedizione, con l’obiettivo di portare il pane a casa. La fatica aveva dato i suoi frutti. Filippo era riuscito a mettere su una ditta edile, anche se nel 1987, spinto dalle difficoltà di un contesto non semplice, dove chi lavora onestamente deve purtroppo fare i conti con la logica parassita della mafia, aveva deciso di trasferirsi a Bologna. Tutto sommato però la vita della famiglia Palmeri era una vita tranquilla. Una tranquillità sconvolta per sempre nel tardo pomeriggio del 18 giugno 1991.
Il 18 giugno del 1991
Quel martedì doveva essere una giornata particolare e spensierata. Gaspare aveva programmato di concedersi, insieme a un piccolo gruppo di colleghi, una trasferta a Ficuzza, non molto distante da Corleone, per andare ad assistere a una partita di calcetto di una squadra il cui presidente era un dirigente del Corpo Forestale di Trapani. A bordo della su Fiat 127, Gaspare parte da Castellammare per raggiungere Alcamo, dove il gruppo si riunisce e si mette in viaggio sulla nuova Golf di Stefano Siragusa, un ragazzo di 32 anni anch’egli operaio della Forestale. Con Gaspare e Stefano ci sono anche Antonino Mercadante, 42 anni, e Domenico Parisi, 42 anni. Gaspare non conosce Domenico, se non perché sono colleghi di lavoro.
La giornata a Ficuzza trascorre piacevolmente. La squadra che erano andati a sostenere vince la sua ultima partita di campionato e così il gruppo decide di fermarsi in un bar per festeggiare la vittoria, prima di rimettersi in cammino, intorno alle 18, per fare ritorno a casa. Giunti in contrada Pietralunga, una zona di campagna tra Corleone e San Cipirello, la Golf è costretta a rallentare da un incendio a bordo strada. È in questo momento che scatta l’agguato. Senza che nessuno abbia il tempo di rendersi conto di quanto sta succedendo, la macchina viene raggiunta da una sventagliata di proiettili di calibro 38 e di una mitraglietta, che esplode almeno 150 colpi. Gaspare è sul sedile posteriore. Viene “attinto da diversi colpi concentrati nell'emitorace anteriore destro e alla regione scapolare sinistra e al braccio sinistro”, come registrerà poi il medico legale. Per lui non c’è scampo. Muore così, a 61 anni, senza neanche rendersene conto. Con lui vengono uccisi anche gli altri occupanti dell’auto. Si salva solo Antonino Mercadante, che, benché ferito, si finge morto e riesce a ingannare i killer. Una volta fuggiti gli assassini, Mercadante si fa caricare da un passante e raggiunge la caserma dei Carabinieri di Ficuzza per dare l’allarme. Intanto, la Golf brucia insieme ai corpi di Gaspare, Stefano e Domenico Parisi.
Vicenda giudiziaria
La chiave di tutto è proprio Parisi. Ma questa è una conclusione alla quale si arriverà solo molti anni dopo. Perché, almeno fino al 2003, quello su un qualche collegamento delle vittime dell’agguato con gli ambienti mafiosi è un giudizio comune, per quanto non accertato da alcun elemento di prova. La vedova e i figli di Gaspare non ci stanno e, benché addolorati ulteriormente da quegli schizzi di fango, continuano a rivendicare l’innocenza e l’estraneità del loro caro. Vengono etichettati crudelmente, abbandonati, isolati. Fino a quando, 12 anni più tardi, le dichiarazioni di Giovanni Brusca, braccio armato dei corleonesi di Totò Riina divenuto collaboratore di giustizia, finalmente fa luce su quel tragico pomeriggio. Si viene a scoprire così che il vero obiettivo dei killer era proprio Domenico Parisi. L’agguato avviene nell’epicentro del dominio della mafia corleonese ed è l’ennesimo atto di uno scontro violentissimo tra i corleonesi di Riina e i Greco di Alcamo. Parisi infatti è il cognato di Lorenzo Greco, potente boss alcamese. Gaspare e Stefano sono le vittime collaterali di una violenza che non si ferma davanti a niente.
L’11 aprile del 2003 la Prima sezione della Corte d’Assise di Palermo condanna all’ergastolo per il triplice omicidio Giuseppe Agrigento, Simone Bennati, Salvatore Madonia e Totò Riina. 14 anni di carcere la pena inflitta a Giovanni Brusca. Nella sentenza, si scrive chiaramente che “il Siragusa e il Palmeri erano caduti nell'agguato sol perché quel giorno si trovavano nella stessa auto in cui viaggiava Parisi Domenico, obiettivo dei killer”. Gaspare e Stefano erano innocenti. L’incubo del fango, almeno quello, era finito.
Memoria viva
Da quel giorno la famiglia di Gaspare – sua moglie, i suoi figli e i nipoti arrivati intanto – continuano a tenere viva la memoria di quest’uomo onesto, raccontandone la storia, con tutto il carico di sofferenza e di dolore che l’ha accompagnata. Come quando, per trasportare il corpo di Gaspare a Castellammare, i suoi figli furono costretti a comprare una bara da una ditta di pompe funebri che si scoprì poi essere legata a Madonia, uno dei responsabili dell’omicidio di loro padre.
Per 20 anni sono rimasto in silenzio perché non avevo a chi raccontare la mia storia. Soffrivo dentro di me maledettamente, perché non potevo mettere in un cassetto la memoria di mio padre: sarebbe stata un’offesa che gli facevo. Mio padre è una persona onesta.
Poi ho conosciuto Libera, altri familiari con cui ho condiviso la sofferenza, altre vittime innocenti e mi è scattata la volontà di fare testimonianza. Nel 2012 con Libera ho parlato per la prima volta in una scuola. È stato come far rivivere mio padre. È stata una liberazione ed anche una felicità. Per la prima volta potevo raccontare l’innocenza di mio padre.
Quello che voglio dire ai giovani è che il silenzio alimenta le mafie. Con la vita di tutti i giorni, con le piccole cose, riusciamo a fare grandi cose. Peppino Impastato diceva: la mafia è una montagna di merda. È proprio così. La mafia mi ha ucciso il padre e mi ha venduto la bara. La mafia è proprio una montagna di merda.
Nel 2017 la memoria di Gaspare si è trasformata anche in una strada di Castellammare, la sua città, cui è stato dato il suo nome. La cosa più bella è stata vedere il piccolo Gaspare, 5 anni, scoprire la targa dove era inciso il suo stesso nome: quello del nonno, Gaspare Palmeri, vittima innocente della mafia.