6 gennaio 1991
Sant'Onofrio (VV)

Francesco Augurusa

Ci sono luoghi nei quali la presenza mafiosa è in grado di scatenare l'inferno per un furto di pecore. È il retaggio antico e perverso di una cultura dell'onore che con l'onore non ha nulla a che fare e che conosce un unico linguaggio: quello della violenza. Una violenza cieca, inaudita, orrifica, che non si ferma davanti a niente e a nessuno. Sono luoghi nei quali la gente perbene, che con quella cultura di morte non ha nulla a che fare, pure è costretta a convivervi. E talvolta anche a morirci.

Francesco Augurusa era una persona perbene, totalmente estranea a quel mondo di sopraffazione che invece da sempre teneva in ostaggio la sua terra. Era nato nel 1947 a Sant’Onofrio, un paese a meno di 10 chilometri dal capoluogo di provincia, Vibo Valentia. Nel 1991, Sant’Onofrio contava poco meno di 4000 abitanti. Un numero che col tempo è continuato costantemente a scendere. Una fuga che forse è anche la conseguenza di una presenza asfissiante della ‘ndrangheta, che qui ha fatto morti e feriti, scatenando faide e massacri. Anche per un furto di pecore. 

Faceva l’operaio Francesco. Lavorava come trattorista in un mulino e la sua vita era la vita tranquilla di un lavoratore onesto: la famiglia, qualche amico. Uno in particolare, Onofrio Addesi. Erano amici prima che colleghi di lavoro e capitava che la domenica si incontrassero nella piazza principale del paese, piazza Umberto I. Quel 6 gennaio del 1991 non era solo domenica, ma era anche il giorno dell’Epifania. La piazza era piena di gente, davanti alla Chiesa, ai tavolini del bar. Sembrava tutto normale, un normalissimo ultimo giorno festivo prima di riprendere la vita di sempre. 

Nella vita di sempre di Francesco c’era anzitutto sua moglie Rosa. I due si erano conosciuti giovanissimi, proprio grazie al lavoro di Francesco. Lei aveva 16 anni quando si sposarono. Nel 1979 poi era arrivato l’unico figlio, Domenico. Padre e figlio avevano un rapporto speciale. Francesco era premuroso e affettuoso e amava profondamente quel suo unico figlio, arrivato dopo tante difficoltà. Questa era la sua famiglia, a maggior ragione da quando i suoi fratelli si erano trasferiti al nord per lavoro. 

Il 6 gennaio del 1991

La mattina del 6 gennaio del ’91 Francesco si era alzato presto per aiutare Rosa in alcune faccende domestiche. Poi aveva salutato suo figlio, ancora a letto, si era preparato per uscire, per andare a Messa e poi incontrare Onofrio e organizzare il lavoro del giorno seguente. Da lì a poco, Domenico lo avrebbe raggiunto in piazza. 

La faida tra le famiglie Bonavota e Petrolo era andata avanti per tutto l’anno che si era appena chiuso. Sette mesi di pura violenza, la cui miccia era stato l’omicidio di Francesco Calfapietra, un giovane pastore di venti anni arruolato da Vincenzo Bonavota, boss indiscusso di Sant’Onofrio. La sua famiglia apparteneva a quella ‘ndrangheta delle Serre che da anni dominava il territorio, alla quale negli ultimi tempi però aveva provato a contrapporsi una cosca emergente, quella dei Petrolo. Sei morti e due decine di feriti in sette mesi. Una faida alla quale avevano dato un contributo anche i Mancuso di Limbadi, la più potente famiglia di ‘ndrangheta del vibonese, che aveva armato la mano dei Petrolo - Matina. Il 3 gennaio era stata la volta di un loro uomo, Domenico Moscato. Per la vendetta era solo questione di tempo. 

La domenica della Befana del 1991 Francesco e Onofrio erano insieme. Scambiavano qualche chiacchiera davanti al bar della piazza. Dentro c’era Domenico, a giocare con qualche ragazzino. Francesco lo aspettava fuori. Insieme sarebbero tornati a casa per pranzo, di lì a poco. 

Alle 11.12 il rumore stridente delle ruote sull’asfalto attirò l’attenzione delle persone. Tra loro, certamente anche quella di due uomini dei Bonavota che si trovavano in piazza quella mattina e che, forse, erano i due obiettivi del commando di morte. La reazione dei due fu quella di mischiarsi tra la gente, forse nel tentativo di dissuadere i killer di fronte alla possibilità di uccidere gente innocente. Ciò che accadde però in quei pochi secondi fu tutt’altro. I tre, forse quattro uomini dei Petrolo giunti a bordo di un’Alfa 33 scesero dall’auto e spararono all’impazzata. Avevano il volto coperto e imbracciavano pistole e kalashnikov. Sull’asfalto, alla fine, rimasero 2 morti e 10 feriti, alcuni molto gravi. A morire sul colpo furono Francesco e Onofrio, 44 e 38 anni, i due amici e colleghi che erano lì per un caffè e quattro chiacchiere. Due persone innocenti e totalmente estranee, come tutti gli altri che quella mattina rimasero feriti in quello che è passato alla storia come Massacro della Befana.

Papà era sempre presente e molto affettuoso. Quando era libero dal lavoro, mi portava sempre con lui, andavamo ovunque, facevamo anche dei giri con la moto. Ricordo che mi dedicava tutto il suo tempo. Papà era integro, non aveva ferite né sangue addosso. Gli presi la testa tra le mani e gli parlai. Lui aprì gli occhi ma li richiuse subito dopo. Io ero convinto che lui stesse bene perché non si vedeva niente, e invece lo avevano colpito all’aorta. Da quel giorno mi chiusi completamente al mondo.
Domenico - figlio di Francesco

Non è stato facile per Domenico, all’epoca appena undicenne, superare quel trauma. E ancora non è facile ricordare quei momenti.
Con fatica, Domenico ha ripreso in mano la sua vita. È diventato un ingegnere informatico, si è sposato e ha avuto due figlie. Ci è riuscito soprattutto grazie al sostegno e all’amore di Rosa, sua madre. Aveva 36 anni quando rimase vedova e ha dovuto lottare per sopravvivere, stare accanto a suo figlio e poi rifarsi una vita. Si è risposata e ha dato a Domenico una sorella. Ma nel suo cuore è sempre vivido il ricordo di Francesco. 

Mio marito lavorava in un mulino e andava a prendere il grano nelle case per portarlo a macinare. E ci siamo conosciuti così. Lui era una persona speciale, un gran lavoratore, buono di cuore e buono di animo. Non ho mai avuto niente da rimproverargli. Abbiamo avuto questo figlio che per lui era tutta la vita.

Rosa - moglie di Francesco

La memoria di questa vita vive nell’amore della sua famiglia e nel lavoro di quanti, in quella terra difficile, continuano a ricordare e ad impegnarsi per cambiare le cose.

Vicenda giudiziaria

L’allarme scattò immediatamente. L’Alfa 33 fu intercettata e fermata da una pattuglia dei Carabinieri dopo dieci chilometri di rocambolesco inseguimento lungo la Tirrenica Inferiore. Alla guida della macchina, Rosario Michienzi, 31 anni, che aveva lasciato gli altri killer e si era lanciato verso l’aeroporto di Lamezia, per restituire la vettura presa a nolo per compiere la strage. Fu fermato a Pizzo Calabro. Aveva ancora con sé la pistola. I Carabinieri misero in campo 150 militari per battere palmo a palmo tutta la zona e ricostruire i dettagli e le responsabilità di quella tremenda strage. Michienzi alla fine sceglie di fare nomi e cognomi di mandanti ed esecutori. Le sue dichiarazioni confermano la totale estraneità delle vittime e dei feriti, sulla quale gli inquirenti non avevano alcun dubbio. Vengono arrestati in 48 ore Gerardo D’Urso, Antonio Bartolotta e Domenico Franzè. Sono tutti giovanissimi: 28 e 19 anni i primi, appena 17 l’ultimo, figlio peraltro del Sindaco di Stefanaconi, un paesino a pochi chilometri da Sant’Onofrio. Nel 1993 la Corte d’Assise di Catanzaro condanna all’ergastolo come mandanti Nazzareno Matina (l’uomo si suiciderà in carcere a Spoleto nel giugno del 2011), suo fratello Pasquale e Rosario Petrolo. Un anno prima, nel giugno del 1992, l’ultimo atto della faida scatenata dal furto di pecore: a Bergamo viene assassinato Fedele Cugliari, braccio destro del boss Vincenzo Petrolo, fratello di Rosario. 

Memoria viva

Il nome di Francesco é ricordato, insieme alle oltre 1000 vittime innocenti delle mafie che ogni anno in occasione del 21 marzo, la Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, riecheggiano in tanti luoghi. Per noi Francesco ha un vero e proprio diritto al ricordo, un diritto che restituisce “dignità” a ogni nome che ricordiamo, che rappresenta la promessa a Francesco che non dimenticheremo la sua storia, i suoi progetti di vita, portando con noi i suoi sogni e rendendoli vitale pungolo del nostro impegno quotidiano.