18 settembre 2008
Castelvolturno (CE)

Eric Affum Yeboah

Esiste un pezzetto d'Africa incastonato tra Formia e Pozzuoli, un luogo incredibile dove il tempo sembra essersi fermato da un pezzo, Castel Volturno. Quella che un tempo era una nota località balneare e di villeggiatura oggi è una città fantasma, simbolo di una disfatta politica e snodo cruciale di passaggi criminali.

Nel 2008, a Castel Volturno, si consumò una delle stragi più efferate della storia del nostro Paese. Vittime del massacro furono sei giovani di origini africane. Al centro di tutta questa storia c’era una sartoria: la Ob Ob Exotic Fashion.

La sartoria era gestita da un giovane uomo, poco più che trentenne e dalla corporatura esile: El Hadji Ababa. El Hadji aveva imparato il mestiere di sarto dal padre e da quando si era trasferito dal Togo in Italia, circa cinque anni prima, aveva riposto in quell’arte tutte le sue aspettative e i suoi progetti. Non voleva restare per sempre a Castel Volturno anzi, il suo sogno era quello di tornare in Africa dalla sua famiglia e di costruire una casa dove vivere tutti insieme. Per il momento però il suo Paese era quel limbo di terra tra Caserta e Napoli. Quella sera, la sera del 18 settembre 2008, aveva dato appuntamento a un suo amico per cenare insieme e festeggiare la fine del Ramadan. Nel frattempo avrebbero ultimato l'abito per un cliente.

Nella sartoria il lavoro non mancava, le giornate passavano in fretta tra riparazioni e orli. Ma spesso capitava anche di dover confezionare un abito per un suo connazionale. Amava il suo lavoro, soprattutto amava la posizione che quello gli offriva. Nel corso di tutti questi anni era diventato un punto di riferimento per l’intera comunità soprattutto per chi si era da poco trasferito in città e non aveva nessuno. Nel suo negozio El Hadji ascoltava e accoglieva tutti come se fossero suoi fratelli.

Con lui al negozio c’era Jeemes Alex che lo aiutava nella vendita dei vestiti. Alex era arrivato dalla Liberia in Italia con la protezione umanitaria e per sopravvivere aveva accettato di tutto, anche i lavori più duri e umili. L’estate si spostava nella provincia di Foggia per raccogliere pomodori e racimolare così qualche soldo. L’inverno invece lo trascorreva a Castel Volturno dove si arrangiava facendo lavoretti saltuari mentre aspettava di poter raggiungere alcuni suoi amici al nord, a Verona. Alex aveva ottenuto da poco il permesso di soggiorno per motivi umanitari, con quel pezzo di carta andare al nord e trovare lavoro sarebbe stato più facile.

Come Alex, anche Samuel Kwaku, originario del Togo lavorava nei campi. Tutte le mattine si svegliava prima dell’alba e si spostava a Giugliano o a Villa Literno dove, se era fortunato, il caporale di turno lo reclutava per il lavoro di raccolta dei pomodori. Tutte le mattine la stessa storia e quando rientrava dopo una lunga giornata di fatica, quelle due chiacchiere e quella sigaretta fumata sotto la luce dell’insegna al neon della sartoria, gli sembravano affievolire la durezza della vita che gli era capitata in sorte.

Gli alloggi sopra la sartoria erano tutti in affitto a famiglie africane. Al secondo piano di quella palazzina, in un piccolo appartamento di due stanze e cucina, viveva un giovane di 26 anni del Ghana, Kwame Antwi Julius Francis. In realtà la casa non era la sua, ma dello zio che vi abitava con la moglie russa e la figlioletta di pochi anni. Kwame l’aveva raggiunto qualche anno prima, dopo una lunga, tormentata traversata in mare dalla Libia fino a Lampedusa. Da allora nutriva una forte paura verso il mare. Kwame stava aspettando di rinnovare il suo permesso di soggiorno. Le sue giornate si dividevano tra il lavoro come muratore e piastrellista e l’attività di volontariato: appena poteva si prestava come interprete allo sportello informazioni del centro sociale dell’ex canapificio. Di lì a poco si sarebbe iscritto a un corso per diventare saldatore. Quella sera era rimasto a casa ad aspettare Eric.

Affum Yeboah Eric, ghanese, anche lui in Italia dal 2004 lavorava come carrozziere. Prima di Castel Volturno aveva vissuto a Casal di Principe, altro comune dell’hinterland casertano dove faceva il custode. Lì le cose parevano gli andassero piuttosto bene. Era riuscito anche a rientrare nelle quote che regolano i flussi di ingresso in Italia e con quelle era tornato in Ghana per ritirare legalmente il visto con la speranza che al suo rientro in Italia, gli avrebbero finalmente contrattualizzato il lavoro in portineria. Le cose purtroppo andarono diversamente. Dopo le minacce del datore di lavoro fu costretto a trasferirsi nella vicino Castel Volturno, dove aveva trovato impiego come carrozziere. La sera del 18 settembre, era sotto casa di Kwame, davanti la sartoria.

Anche Cristopher Adams si trovava nel piazzale antistante la Ob Ob Exotic Fashion a chiacchierare con alcuni amici. Cristopher aveva 28 anni, era ghanese e viveva in Italia da sei anni. Era arrivato con protezione umanitaria. A Napoli aveva un piccolo locale nei pressi della stazione, dove lavorava come barbiere. Quella sera aveva custoditi nei calzini i risparmi del suo lavoro da inviare alla sua famiglia in Africa.

L'agguato

La sera del 18 settembre 2008 il Napoli giocava la sua prima partita in Europa League, il giorno dopo in città sarebbero esplosi i festeggiamenti per il Santo Patrono. Tutta la zona era in fermento: si respirava un misto di attesa e di adrenalina. Le strade erano silenziose e vuote, anche lì a quel km 43 della Domiziana, l’unica luce proveniva dall’interno della sartoria dove El Hadji Ababa stava ancora lavorando. A rompere il silenzio e la tranquillità di quella sera di fine estate furono alcune volanti della polizia, che a tutta velocità raggiunsero il piazzale di fronte al locale.

A scendere dalle volanti ancora in corsa fu un gruppo di poliziotti, o almeno così sembrava, che cominciò a sparare all’impazzata. Una vera e propria carneficina. I killer si erano presentati vestiti da poliziotti, con tanto di lampeggiante e paletta, questo gli consentì di uccidere con più facilità. Le vittime di certo non sarebbero scappate da chi credevano dovesse proteggerli.
La mattanza durò qualche minuto. Gli uomini risalirono in macchina e scapparono lasciando a terra senza vita sei persone: Kwame Antwi Julius Francis,  Eric Affum Yeboah, Christopher Adams, El Hadji Ababa, Samuel Kwaku, Jeemes Alex.

In men che non si dica il piazzale si popolò di luci e macchine della polizia, un via vai di ambulanze, giornalisti e fotografi. Solo delle urla, strazianti, inumane, si sentirono quella notte: erano le urla di una comunità ferita che non si dava pace.

Da lì a poco quelle urla si trasformarono in rabbia, una rabbia che degenerò il giorno seguente, giorno di San Gennaro, in una protesta violenta e furiosa che attraversò le strade di Castel Volturno. Un corteo di centinaia di persone, tutte nordafricane, che invocavano riscatto e protezione per loro e per i loro compagni morti, ma soprattutto per quel pezzo di terra abbandonato da Dio e da tutti e in preda all’assoluto controllo di clan e malaffare. Fu solo allora che l’Italia si accorse di Castel Volturno e della sofferenza che quel luogo accoglieva. Fu solo dopo la strage di San Gennaro che il Paese conobbe la cieca ferocia del clan dei Casalesi.

Le testimonianze

Appena sentii le macchine andare via, aprii gli occhi e cominciai a piangere (…) Subito telefonai a un amico per chiedere aiuto. Vidi una donna dall’altro lato della strada che piangeva anche lei. Io piangevo, lei piangeva (…) Passò circa un’ora prima dell’arrivo dei soccorsi.

Così racconta l'agguato Joseph Ayimbora, unico sopravvissuto della strage. Joseph fu ripetutamente colpito all’addome e alle gambe ma, fingendosi morto, riuscì a salvarsi. In ospedale riconobbe dalle foto segnaletiche gli uomini facenti parte del gruppo di fuoco. Secondo la testimonianza, Setola e i suoi uomini erano travestiti da poliziotti. Con il boss c'erano anche Giovanni Letizia, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo e Davide Granata. Joseph è poi morto nel febbraio del 2012 per un aneurisma cerebrale nella località protetta in cui si trovava con la moglie e i suoi tre figli.

Vicenda giudiziaria

Il processo per la strage di Castel Volturno, iniziò il 12 novembre 2009 presso la Corte d’assise di Santa Maria Capua Vetere e vide a giudizio sei imputati. In pratica l’intero gruppo di fuoco capeggiato da Giuseppe Setola. Oltre a ‘o cecato, Davide Granato, Antonio Alluce, Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia e Oreste Spagnuolo (quest’ultimo divenuto collaboratore di giustizia). La sentenza emanata dalla Corte Suprema di Cassazione il 30 gennaio del 2014, ha confermato l’ergastolo per Giuseppe Setola, Giovanni Letizia, Alessandro Cirillo e Davide Granato e la pena a 28 anni e 6 mesi di reclusione per Antonio Alluce; la Corte ha riconosciuto anche l'aggravante dell'odio razziale mentre ha escluso quella del terrorismo chiesta dalla Corte D’Assise di Santa Maria Capua Vetere.

"Fu una strage razzista, per dire agli immigrati che dovevano andarsene da quel territorio". Così ricorda la strage Federico Cafiero de Raho, oggi Procuratore nazionale antimafia, allora procuratore aggiunto a Napoli, uno dei 'nemici' più temuti del clan dei Casalesi che commisero quel gravissimo delitto «per rivendicare il controllo del territorio».

Fu uno degli eventi più significativi del controllo del territorio del clan dei Casalesi. Uccidere quei cittadini immigrati significava non tollerare la loro presenza e dire 'qui comandiamo noi e chiunque voglia operare deve farlo solo attraverso il nostro consenso'. Il clan aveva dei progetti importanti di reinvestimento sul territorio e per loro questo veniva impedito dalla presenza degli extracomunitari. Così era stato detto loro di allontanarsi da Castel Volturno: non lo avevano fatto e vennero colpiti. È una delle dimostrazioni più chiare di quanto il clan dei Casalesi sia stato violento e privativo di ogni libertà per chiunque abbia abitato il loro territorio.
Toni Mira - Intervista su Avvenire 18 settembre 2018

Memoria viva

I presidi di Libera a Castel Volturno e a Fabriano sono dedicati alla memoria delle vittime innocenti della Strage di Castelvolturno.