Mimmo Noviello - è così che lo chiamavano tutti - era originario di San Cipriano d’Aversa, in provincia di Caserta. Era nato alla vigilia del giorno di Ferragosto del 1943, in uno dei luoghi dove la camorra del clan dei casalesi negli anni avrebbe imposto il proprio dominio. Ma Mimmo, come la stragrande maggioranza delle persone che vivono in questa terra per troppo tempo schiacciata da una presenza criminale fortissima, era una persona perbene. Era un piccolo imprenditore che, con tenacia e passione, aveva messo su una scuola guida a Castel Volturno, dove si era stabilito con sua moglie e i suoi quattro figli: Massimiliano, Rosaria, Mimma e Matilde. I primi due gestivano con lui l’attività, che funzionava e garantiva la tranquillità di tutta la famiglia. Tutto scorreva tranquillo. Tranquillo come il temperamento di quest’uomo semplice e gentile. Un padre buono e un imprenditore limpido.
La denuncia di Mimmo
Purtroppo, chi investe in terra di camorra, e lo fa onestamente, troppo spesso è chiamato a fare i conti con molto di più che i rischi d’impresa tipici del mercato. C’è una variabile in più ed è, appunto, la camorra. I primi anni duemila sono quelli nei quali il clan dei casalesi cambia strategia e comincia a utilizzare la violenza come strumento sistematico di affermazione del proprio dominio sul territorio. Gli uomini di Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte, seminano terrore e, per farlo, si affidano in particolare a Giuseppe Setola, un assassino senza scrupoli messo a capo dell’ala stragista del clan. Taglieggiare commercianti e imprenditori diventa, come sempre accade, il metodo migliore da un lato per assicurare liquidità all’organizzazione, dall’altro per dimostrare plasticamente chi comanda sul territorio. Ribellarsi alla logica delle estorsioni non è consentito.
Quel giorno del 2001 gli uomini del clan fanno visita a Mimmo. La richiesta è sempre la stessa: soldi. Ma Mimmo è un uomo libero e nel suo vocabolario la parola libertà ha un valore assoluto. È per questo che immediatamente sceglie di non piegarsi. Racconta tutto alla sua famiglia, vuole condividere con loro il senso di una scelta coraggiosa certo, ma per lui irrinunciabile: denunciare. I suoi cari lo sostengono, sanno che andrà fino in fondo. “Non bisogna chinare il capo - ripete ai suoi figli - a chi con le minacce vuole rubarti la libertà e toglierti la dignità”. Ecco, la libertà. Per Mimmo non ci sono alternative. E a chi, soprattutto tra i suoi colleghi, prova a dissuaderlo, risponde determinato: “da me non avranno mai un soldo, perché me li guadagno col sudore della mia fronte”. Annota tutto in un diario: nomi, cognomi, fatti e circostanze. E poi denuncia tutto. Un gesto che ha due conseguenze intollerabili per la logica perversa del clan. La prima: le dichiarazioni di Domenico portano a processo e in carcere 5 camorristi e, tra questi, personaggi di spicco come Pasquale Morrone e Alessandro e Francesco Cirillo. La seconda, forse ancora più insopportabile della prima: Mimmo si trasforma in un esempio e, dopo di lui, lentamente altri imprenditori cominciano a rifiutare le richieste estorsive.
Il 16 maggio 2008
Il tempo è la seconda parola chiave di questa storia. Un tempo che, dopo quella decisione del 2001 e le sue conseguenze, trascorre inesorabilmente tra ansie e preoccupazione, ma anche nella speranza che quella pagina potesse in qualche modo essere considerata chiusa per sempre. Ma Mimmo sa che la camorra non dimentica. E, nella sua vita, pesa il ricordo del destino di suo cognato, ucciso molti anni prima per la stessa ragione. Per un paio d’anni, gli viene assegnata una tutela. Lui stesso si preoccupa di difendere sé e la sua famiglia e prende il porto d’armi. Il tempo trascorre così. Fino alla mattina del 16 maggio del 2008. Sette anni dopo. Mimmo era un uomo abitudinario. Tutte le mattine usciva di casa puntuale alle 7.30. Un caffè e poi di corsa verso l’autoscuola a bordo della sua Fiat Panda nera. Di solito con lui si spostava Massimiliano, suo figlio. Ma non quel giorno. Massimiliano decide di uscire di casa ancor prima per andare a fare una corsa in spiaggia. Avrebbe raggiunto suo padre più tardi, direttamente al lavoro. Mimmo sale in macchina e si avvia verso il Parco Sementini, dove si trova la sua scuola guida, a pochi passi dal Commissariato di Polizia. Arriva nei pressi della piazzetta della frazione balneare di Baia Verde, poi all’incrocio tra viale Lenin e via Vasari. Una curva e i dossi artificiali lo obbligano a rallentare. In pochi minuti, si consuma la tragedia. Sei, forse dieci sicari lo raggiungono. Imbracciano pistole calibro 38 e calibro 9. Aprono il fuoco. Mimmo si ferma, tenta di impugnare la sua pistola, prova a scappare. Viene raggiunto da una ventina di proiettili. Non ha scampo. Gli assassini lo finiscono con tre colpi alla nuca. Un’esecuzione in pieno stile mafioso. Il tempo non era servito a lavare l’affronto che il clan aveva subito. Quell’atto di ribellione di sette anni prima andava punito con il sangue.
“Mimmo Noviello, simbolo di virtù civiche. Difese la libertà e pagò con la vita il coraggio delle sue azioni”. C’è scritto così sulla lapide che ne ricorda il sacrificio sul luogo del delitto. Un delitto che, nella logica della camorra, doveva assumere un valore pedagogico, simbolico: la camorra non dimentica, alla camorra non ci si può ribellare.
Il giorno dei funerali la reazione della gente fu timida: pochi colleghi, pochi commercianti. Non solo: quella tragedia trovò pochissimo spazio anche sui giornali e nei telegiornali, oltre che nella coscienza della gente, e neppure le Istituzioni compresero quanto fosse importante esserci.
Vicenda giudiziaria
Le indagini andarono subito nella direzione della vendetta del clan. I familiari consegnarono alle forze dell’ordine il diario di Mimmo. Gli assassini vennero messi alla sbarra. Il primo grado di giudizio, celebrato nel 2012 con rito abbreviato, si è chiuso con la condanna alla pena dell’ergastolo di tre persone, considerate tra gli esecutori dell’omicidio. Nel luglio del 2014 però la sentenza di secondo grado del Tribunale di Napoli ha escluso l'ergastolo e applicato la pena della reclusione a 30 anni. Condanna confermata nel 2015 dalla Corte di Cassazione. Intanto, nel luglio del 2014, si era aperto il processo nei confronti di Setola, che si è dichiarato, in videoconferenza, per nulla pentito del delitto. Il 19 novembre, la Corte d’Assise ha condannato all’ergastolo lo stesso Setola e, con lui, Giovanni Letizia, Massimo Napolano, Alessandro Cirillo e Francesco Cirillo. 30 anni sono stati inflitti a Metello Di Bona e 13 anni e 6 mesi al pentito Luigi Tartarone. Il 27 Novembre 2017 la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata dai difensori di Francesco Cirillo e rinviato per nuovo giudizio a un’altra sezione della Corte di assise di appello di Napoli l'imputato, successivamente condannato a 30 anni nel dicembre del 2019. I figli di Mimmo, cui intanto nel 2009 è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile, hanno seguito tutte le fasi del processo.
Memoria viva
Il tempo non è servito a far dimenticare alla camorra il gesto ribelle di Mimmo. Ma non è servito neanche a farne dimenticare il profondo valore civile. Porta il suo nome l’associazione antiracket che riunisce i commercianti del litorale Domizio, la cui sede si trova in una villa confiscata a Pinetamare, anch’essa intitolata a Mimmo. Portano il suo nome i Presidi di Libera a San Cipriano d’Aversa e a Ivrea.
Domenico Noviello era una persona carismatica, che amava la vita. In queste circostanze o ti fai prendere dal dolore o cerchi di trasformare il dolore in impegno, in forza. È quello che abbiamo fatto noi familiari. Conoscere la storia di mio padre non deve servire per farlo diventare un eroe ma per far riflettere sul perché è morto