Raffaele Granata nasce il 1° gennaio 1938 a Mugnano, in provincia di Napoli. Padre di quattro figli, è stato per molto tempo un dipendente dell’Atan, l’azienda di trasporti napoletana, prima di andare in pensione e dedicarsi allo stabilimento balneare “La Fiorente”. Era dedito al lavoro, tanto che, nella stagione estiva, non faceva neppure ritorno a casa la sera, rimanendo a dormire in una piccola casa situata di fronte al lido, a Marina di Varcaturo.
A ricordarlo è il fratello Mario, che in un’intervista alla Stampa, parla di Raffaele come di un uomo onesto, a cui non piacevano i soprusi, “un uomo senza paura, che non si lasciava certo intimorire dalle minacce e denunciava i delinquenti che lo perseguitavano, che viveva per il lavoro e la famiglia”.
È proprio l’amore per il lavoro e la famiglia che, nel 1992, l’ho portò a denunciare. Con altri commercianti della zona, decide di rompere la catena di minacce e soprusi perpetrati dal clan Bidognetti. Il loro atto di coraggio porterà all’arresto e alla condanna di tre persone, attirando però l’attenzione della camorra, che inizia a tenere d’occhio la famiglia Granata e il loro stabilimento.
Inizia qui la lotta di Raffaele Granata contro la mafia casertana. Dopo la denuncia, nei primi anni Novanta, la situazione sembrò calmarsi, fino a quando non cominciarono ad arrivare nuove richieste, tutte dai “parassiti del racket”.
I taglieggiatori si erano presentati per l’ultima volta i primi di luglio. Erano in due, gente conosciuta in paese, a Calvizzano. Dicevano di essere venuti per conto di un clan di Castelvolturno e ancora una volta, minacciando Raffaele, gli avevano chiesto una tangente. Ancora una volta, erano stati cacciati con forza.
A settant’anni, stanco dopo una vita dedicata al lavoro, Raffaele Granata non ha ceduto, ma era preoccupato. La famiglia ricorda di quanto fosse taciturno e pensieroso, in quei giorni. Cominciò a passare ogni istante al lido, nel suo stabilimento. Non tornava a dormire a casa, ma neppure in quella casetta di fronte a “La Fiorente". La difesa di quel lido, forse, rappresentava per Raffaele la difesa della sua stessa famiglia. Se qualcuno poi esprimeva il timore di una rappresaglia, lui rispondeva “non me ne frega niente, non mollo neanche se mi ammazzano” ed è così che è finita. L’hanno dovuto ammazzare per piegarlo al loro volere.
11 luglio 2008
È l’11 luglio 2008 quando una delle spiagge più famose del napoletano si trasforma nell’ennesimo scenario di violenza. Raffaele Granata viene ucciso nel suo stabilimento dal clan dei Casalesi. Lui, che amava il mare, perse la vita proprio lì, per mano di un gruppo di camorristi in moto, che incuranti della gente che cominciava ad affollare il nido, gli spararono a bruciapelo.
“È morto solo” scrive l’Unità del 13 luglio 2008, “in una terra che di imprenditori ne ha visti cadere troppi negli ultimi tempi”. Come Domenico Noviello, ucciso il 16 maggio dello stesso anno per aver denunciato i suoi estorsori sette anni prima.
Il messaggio fu chiaro, all’indomani di quel’11 giugno: chiunque si fosse opposto alla mafia, chiunque avesse avuto il coraggio di alzare la testa, di dire no, avrebbe fatto la stessa fine. L’omicidio venne visto come una chiara vendetta contro un uomo che, per anni, si era rifiutato di pagare il pizzo. Era giunto il momento di riaffermare un potere a cui gli imprenditori della zona avevano cercato di opporsi.
Il coraggio di Raffaele, però, ha portato anche altri a parlare, primi tra tutti i suoi familiari. In un paese in cui la parola “camorra” non viene quasi mai pronunciata, il fratello Mario, la vuole urlare. “Lo scriva” dice al giornalista della Stampa che lo intervista pochi giorni dopo la morte di Raffaele, “i Granata sono una famiglia per bene: non ci siamo mai piegati né ci piegheremo mai ai ricatti dei criminali. Non troveremo pace fino a quando non sarà fatta giustizia per la morte di mio fratello”.
In un periodo, quello tra il 2008 e il 2009, in cui la camorra casertana era intimorita dalla serie di arresti e condanne scaturiti dal processo Spartacus, in cui molti clan erano stati smantellati e vedevano minacciato il proprio potere criminale sul territorio, famiglie come quella dei Granata hanno continuato a lottare a testa alta.
Ai funerali, a cui partecipano più di duemila persone, sembra che il messaggio l’abbia mandato lui, Raffaele, un simbolo di lotta contro la criminalità organizzata che attanagliava la provincia napoletana.
Quasi mille persone si affollano sul sagrato della chiesa di Calvizzano, nonostante il caldo afoso di metà luglio. All’interno non c’è abbastanza posto. Una città deserta, silenziosa, dove ogni negozio è stato chiuso in segno di lutto cittadino. La bara di Granata, nella chiesa di San Giacomo Apostolo, è coperta di fiori e circondata dai suoi cari, tra cui il figlio Giuseppe, primo cittadino di Calvizzano. Don Luigi Perrillo, nella sua omelia, afferma:
Non dobbiamo cedere alla rassegnazione. Dio non vuole che noi ci rassegniamo, come non vuole che noi ci opponiamo al malvagio, ma alla malvagità. La morte di Raffaele Granata deve essere l' occasione per riflettere e non per rassegnarci.
Giuseppe Granata, di fronte alla bara del padre, chiede giustizia. Così come il vicesindaco Antonio Mauriello, che lancia un monito contro la camorra: “questo non è il momento delle polemiche […] ora ci aspettiamo dallo Stato una risposta concreta contro questo atto di barbarie”.
Vicenda giudiziaria
La lunga vicenda giudiziaria sul caso di Raffaele Granata ha avuto inizio già nel luglio 2008 quando, a pochi giorni di distanza, due affiliati del clan dei Casalesi, Luigi Ferillo e Giuseppe Gagliardi, hanno deciso di costituirsi presso il comando provinciale di Caserta.
Fu subito chiaro alla DDA di Napoli che dietro all’ennesimo omicidio del casertano ci fosse quello che era stato ribattezzato, proprio in quel periodo di efferati assassinii, lo squadrone della morte dei Casalesi, formato da Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Emilio di Caterino, Pasquale Vargas, Giovanni Letizia e Oreste Spagnuolo. La formazione vedeva la collaborazione tra i Casalesi e la famiglia Polverino di Marano. Tra gli esattori del lido “La Fiorente” era stato infatti riconosciuto uno dei "Portafoglio", soprannome dei Polverino, che probabilmente dava appoggio al commando armato dei Casalesi sul territorio.
Le prime indagini, nell’estate del 2008, avevano però portato anche a ipotizzare un coinvolgimento della mafia serba. Già nel 1992, quando Granata aveva denunciato i suoi estorsori, i Casalesi avevano contatti con la criminalità serba, che nascondeva le armi jugoslave nel casertano. Venne quindi chiamato in causa il killer Ninoslav Konstantinovic, boss della gang di Zemun, sobborgo di Belgrado, allora ricercato in tutta Europa per l’omicidio del primo ministro serbo Zoran Djindjic, avvenuto nel 2003. Queste prime ipotesi, che non dimostrarono alcun rapporto tra la mafia serba e l’omicidio di Granata, fanno però capire quanto la camorra, in quegli anni, come oggi, sia un problema internazionale e non solo italiano.
A settembre 2008, Oreste Spagnuolo fu il primo a collaborare con la giustizia, gettando però l’ombra del sospetto sulla famiglia di Raffaele Granata, affermando che avevano pagato una tangente di diecimila euro alla camorra perché finisse finalmente lo spargimento di sangue. Al processo nell’aula bunker di Santa Maria Capua Vetere contro Setola e altri quaranta imputati, Giuseppe Granata, avvocato penalista, smentisce tutto. Il figlio di Raffaele, insieme alla famiglia, si costitutisce parte civile davanti alla seconda sezione della corte di Assise, presieduta da Maria Alaia, in modo da smentire le parole di Spagnuolo.
Il processo per l’omicidio di Raffaele Granata si è concluso il 22 febbraio 2013, con sette condanne, di cui quattro all’ergastolo, per Setola, Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia e Carlo Di Raffaele. Nonostante la pubblica accusa avesse chiesto l’ergastolo per tutti gli imputati, ad eccezione del pentito, a cui vengono dati dodici anni, Ferdinando Russo viene condannato a ventotto anni di carcere e Loran John Perham, inizialmente, a soli cinque anni di detenzione.
Il 26 giugno 2014, durante il processo presso la Corte di Assise del Tribunale di Napoli di Santa Maria Capua Vetere, viene confermata la condanna all’ergastolo di Giuseppe Setola e degli altri tre associati al clan. Cambia la condanna all’autista di Setola, Perham, a cui inizialmente erano stati inflitti cinque anni per favoreggiamento e che viene qui condannato a diciotto anni per concorso in omicidio. Viene infatti ritenuto anch’egli responsabile e condannato, nel 2019, a diciotto anni e otto mesi di reclusione dalla Corte di Assise di Appello di Napoli. Questo è avvenuto perché Perham fu ritenuto consapevole “circa le intenzioni del commando, per averne i suoi compienti parlato in sua presenza”. Loran John Perham, oltre ad essere l’autista di Giuseppe Setola, era il titolare dell’International Camping dove i killer dell’ala stagista del clan dei casalesi si erano riuniti per pianificare l’omicidio di Raffaele Granata. È stato quindi ritenuto non solo a conoscenza dei fatti che hanno portato all’attentato, ma anche responsabile, in concorso di colpa, motivo per cui la Corte Suprema ha rigettato il ricorso presentato dai suoi avvocati durante il processo, chiedendo inoltre il pagamento di tremila euro in favore della Cassa delle Ammende. La sentenza è arrivata dopo le testimonianze dei collaboratori di giustizia Spagnuolo e Amatrudi, che hanno potuto confermare la presenza di Perham durante l’organizzazione dell’omicidio.
Nulla potrà restituire a me e alla mia famiglia mio padre, ma la sentenza emessa oggi rappresenta un passo importante che dà senso al nostro impegno e al nostro desiderio di giustizia.
Memoria viva
Il giorno dei funerali, il vicesindaco di Calvizzano, Antonio Mauriello, ha annunciato l’istituzione di una borsa di studio intitolata a Raffaele Granata, dal titolo “A Raffaele Granata, un faro di legalità in un oceano di delinquenti”.
Nell’aprile del 2012 viene intitolata in sua memoria la bretella intercomunale di Villaricca, Mugnano, Milano e Calvizzano.
In occasione del sesto anniversario della sua uccisione, a luglio 2014, viene ricordato presso la sala consiliare del Comune di Castelvolturno.
Due anni dopo, la FAI ha ricordato Raffaele Granata, insieme ai figli dell’imprenditore, insieme ai familiari di Domenico Noviello e Antonio Ciardullo, altre vittime del clan di Setola.
L’11 luglio 2023, a distanza di 15 anni dall'omicidio, al lido “La Fiorente” è stata apposta una targa che recita:
Qui vive Raffaele Granata, uomo libero. Dove il mare che sempre amò ha ingigantito la sua Libertà.