23 gennaio 2003
Napoli (NA)

Antonio Vairo

Sacrificio. Ci sono storie di vita che, quando le ascolti o le leggi, la prima parola che ti viene in mente è proprio questa: sacrificio. Perché sono storie di vita semplice. Storie di vite costruite con il sudore, giorno per giorno, per andare avanti umilmente, ma onestamente. Sembrano così piccole eppure, a scoprirle, raccontano di un enorme coraggio quotidiano, fatto di fatica e, appunto, di sacrificio.

Antonio Vairo, classe 1935, era nato in una famiglia così, semplice e umile. Una di quelle famiglie in cui la scuola è un privilegio e il lavoro una necessità. Perché bisogna mettere il piatto a tavola. Ci si può anche arrangiare, a patto di farlo però sempre onestamente. Valori che Antonio aveva imparato da bambino e sui quali poi aveva voluto costruire anche la sua di famiglia ed educare le sue tre figlie, Elena, Concetta e Carmela. Con loro e con sua moglie aveva deciso anche di compiere una scelta non facile, coraggiosa anch’essa per chi, come lui, amava la sua terra e vi era profondamente legato: lasciare Napoli. Un viaggio lungo di migliaia di chilometri, fino alla Germania, per provare a costruire un avvenire più sicuro e più solido per sé e per i propri cari. 

Il ritorno a Napoli

In Germania Antonio aveva trovato lavoro come spazzino. L’ennesimo sacrificio fatto per sostenere la sua famiglia. Poi però il richiamo delle proprie radici era stato più forte, così come sempre forte era rimasto l’amore per la propria terra, anche a distanza di tanti chilometri. La decisione di tornare a Napoli non fu facile, ma Antonio, sua moglie e le loro figlie la affrontarono come sempre coraggiosamente. Ancora un sacrificio, ma stavolta con la prospettiva di tornare a casa. Qui, a Napoli, bisognava trovare un nuovo lavoro però, qualcosa che consentisse di continuare a sostenere la sua compagna di vita, la famiglia, le figlie, i nipoti. Antonio scelse così di procurarsi un triciclo. Sarebbe stato questo lo strumento del suo lavoro per gli anni seguenti: in triciclo su cui esporre il pesce da vendere in giro per il quartiere. Sarebbe diventato un pescinvendolo ambulante. Un lavoro duro, ma quella era la sua vita e lui l’avrebbe affrontata, ancora una volta, con coraggio e con gioia. 

Quel lavoro lo aveva fatto fino a due anni prima di quel maledetto 23 gennaio del 2003. Poi aveva finalmente deciso di riposarsi, di godersi di più e meglio la sua famiglia e i suoi nipoti. Da quel momento, la sua vita era diventata ancora più semplice, più ritirata. Era una brava persona Antonio. Tutto qui. 

Il 23 gennaio del 2003

La mattina del 23 gennaio 2003, Antonio era uscito di casa per delle commissioni. Sarebbe andato dal barbiere, per poi fermarsi a bere una bibita al circolo ricreativo che frequentava, un’associazione cattolica di cui era socio. Tutto questo in via Calata Capodichino, poco lontano dall’aeroporto internazionale di Napoli. Una zona piena di negozi e sempre molto frequentata. Nonostante questo, di quello che accadde di lì a pochi minuti, non ci sarebbe stato nessun testimone.

La tragedia si consumò in pochi minuti. Antonio era all’esterno del circolo. Qualcuno gli si avvicinò alle spalle in modo fulmineo ed esplose un colpo di pistola. Il proiettile colpì Antonio alla nuca, attraversando completamente il corpo. La corsa all’ospedale San Giovanni Bosco fu inutile. Antonio morì poco più tardi, nel reparto di rianimazione. Aveva 68 anni. 

Vicenda giudiziaria

L’assenza di testimoni non aiutò certo le indagini, che partirono subito. Antonio era incensurato e dunque bisognava capire chi e perché lo avesse ucciso, peraltro così vigliaccamente, sparandogli alle spalle. Diciotto mesi di indagini che però non portarono a nulla: il killer di Antonio non aveva un nome e un volto; il motivo della sua morte, un mistero. Nel giugno del 2004 il PM avanza la richiesta di archiviazione, che viene accolta dal GIP. Una morte senza colpevoli. Una condanna all’ingiustizia che la famiglia ha vissuto e continua a vivere con profonda sofferenza. E anche quando il Ministero dell’Interno, qualche anno dopo, ha certificato che Antonio “fu ucciso per errore” nell'ambito di un regolamento di conti per qualche giro di scommesse clandestine, il dolore per quella morte ingiusta e per una giustizia mai arrivata ha continuato a tormentare i suoi familiari. Certo, è la parola definitiva sull'estraneità di Antonio a qualsiasi vicenda criminale. Ma questo i suoi cari lo sapevano già.

Da allora, la serenità della mia famiglia è stata stravolta. Tutt'ora, anche tra familiari, non è facile parlarne e ancor di meno accettare quanto è accaduto. Con un'archiviazione così rapida ci sentimmo abbandonati dalle Istituzioni e dalla comunità. Abbiamo conosciuto sulla nostra pelle il significato della parola omertà. Mio padre era una persona per bene e merita di avere giustizia. Prego che un giorno, anche in maniera anonima, qualcuno collabori con le autorità affinché possa essere arrestato chi ha commesso questo crimine. Non solo per mio padre ma anche per mia madre, venuta a mancare diversi anni fa. L'unico suo desiderio era conoscere chi le aveva strappato l'amore del marito. Non ha resistito al suo dolore. Ora tocca a me esaudire il suo ultimo desiderio e tenere viva la speranza.
Concetta - figlia di Antonio

Memoria viva

Per mantenere viva questa speranza e la memoria di Antonio, le sue figlie sono impegnate in percorsi di testimonianza accanto a tanti altri familiari di vittime innocenti della Campania. Accanto a loro, la Fondazione Pol.I.S. e la rete di Libera. A dieci anni dalla morte di Antonio Vairo, è stata apposta una targa sul luogo del delitto. Nel 2019, a lui è stato intitolato un laboratorio scientifico dell’Istituto Alberghiero Duca di Buonvicino, che si trova a pochi metri da quel luogo. Un modo per trasformare la memoria di Antonio in uno strumento vivo e concreto di educazione e formazione.