Mina li conosceva i suoi assassini. E li conosceva perché condivideva con loro lo spazio del quartiere, come accade normalmente a chi nasce e cresce in terra di camorra. Lei aveva fatto scelte diverse, totalmente opposte a quelle dei suoi assassini. Eppure li vedeva per strada quei personaggi; li aveva incontrati in carcere, dove aveva scelto di fare servizio volontario; aveva fatto finanche da baby sitter per i figli di uno di loro. Ma non c’era niente in lei di quella cultura di violenza e di morte che invece devasta la vita dei giovani che decidono di starci dentro al Sistema. Si era anche innamorata di uno di loro. Si chiamava Gennaro e lei, appena ventenne, se n’era invaghita. Poi però aveva scelto di lasciarlo, perché pure lui aveva preso quella strada. E quella strada, a Gelsomina, proprio non piaceva.
Ed è proprio quella relazione fugace, finita peraltro molto tempo prima, a essere stata la condanna a morte per questa ragazza solare, affabile, impegnata nel sociale. Il volto bello e pulito di una gioventù ancora tutta da vivere, il sorriso aperto e sincero, due occhi grandi e penetranti, i sogni e le speranze di una ragazza di non ancora 22 anni, finita vittima di una violenza indicibile. Un orrore senza fine.
Gelsomina Verde - per tutti Mina - era nata a Napoli il 5 dicembre del 1982. Era cresciuta a Scampia, figlia di una famiglia onesta e semplice di lavoratori precari. Lavorava come operaia in una fabbrica di pelletteria. Poi, nel tempo libero, provava a riempire la sua esistenza aiutando chi ne aveva bisogno. E a Scampia in tanti hanno bisogno. Così, come volontaria, aiutava i bambini del quartiere a studiare o andava in carcere. Ci credeva davvero lei che quei tanti, troppi ragazzi che si perdevano, stritolati dalla camorra e affascinati dal potere criminale, avrebbero potuto ritrovare la strada giusta se gli fosse stata data una seconda possibilità, un’alternativa, una prospettiva diversa. Ecco, era così Mina. Lei ci credeva.
Gennaro Notturno, il ragazzo di cui si era invaghita, era uno di quelli finiti nel vortice del sistema criminale che, a partire dall’ottobre del 2004, ha inondato di sangue e violenza le strade di Scampia, per quella che è passata alla storia come la prima faida di Secondigliano. Una guerra quotidiana, scoppiata in seno al clan Di Lauro, fatta di morti ammazzati a ogni ora del giorno e della notte. Omicidi, torture, vendette trasversali. Da una parte gli eredi di Paolo Di Lauro, boss indiscusso di Secondigliano; dall’altro gli scissionisti, ex alleati dei Di Lauro, divenuti poi loro acerrimi nemici. La posta in gioco era il controllo degli affari criminali sul territorio, legati in particolare al traffico di droga. Gennaro aveva scelto la parte degli scissionisti. Per questo andava trovato e punito.
Il 21 novembre del 2004
Tutto questo accadeva quando la storia con Mina era finita da un po’. Ma è proprio in lei che i killer della camorra vedono lo “strumento” migliore per arrivare a Gennaro. Il piano degli uomini dei Di Lauro si mette in moto. Sono convinti che prendersela con Gelsomina li aiuterà a stanare Gennaro. O forse spingerà lei a rivelare dove si trova. Il gancio è Pietro Esposito, alias o’ Kojak, per via di quella testa rasata che ricordava l’attore del telefilm. Esposito aveva conosciuto Gelsomina quando era in carcere. La avvicina intorno alle 23.00 di quel maledetto 21 novembre del 2004 e la consegna ai suoi aguzzini, a suo dire senza sapere che l’avrebbero ammazzata. Quello che accadde nei minuti successivi è puro orrore. Nel tentativo di estorcerle informazioni su Gennaro Notturno, Mina venne torturata e seviziata per ore. Ma lei non sapeva dove si trovasse il suo ex. La ritrovarono più tardi, totalmente carbonizzata, a bordo della Fiat 600 acquistata da suo padre con tanti sacrifici. L’autopsia eseguita sul suo povero corpo avrebbe rivelato chiaramente i segni delle sevizie che aveva dovuto subire prima di essere barbaramente assassinata con un colpo alla nuca. Infine, l’ultimo atto di questa terribile barbarie: il cadavere delle ragazza fu rinchiuso in un sacco, caricato sulla sua auto e dato alle fiamme, forse nel vano tentativo di cancellare col fuoco le tracce di quella violenza inenarrabile.
L’omicidio di Gelsomina, anche a causa della sua particolare crudeltà ed efferatezza, provocò un’ondata di indignazione, attirando l’attenzione delle Istituzioni e dell’opinione pubblica.
Vicenda giudiziaria
Tutto questo mentre le indagini tentavano di dare un volto agli autori di tanta ferocia. Pochi giorni dopo il delitto - il 26 novembre - Pietro Esposito viene arrestato. Afferma di non aver partecipato al massacro e di aver avvicinato Mina inconsapevole delle reali intenzioni dei killer. Decide ben presto di collaborare con la giustizia e fa i nomi degli altri. Uno di loro è Ugo De Lucia, 26 anni, killer spietato al soldo dei Di Lauro, che viene arrestato in Slovacchia il 25 febbraio del 2005. Il 4 aprile del 2006, nel processo che aveva visto la famiglia Verde costituirsi parte civile, il boia di Gelsomina viene condannato all’ergastolo con l’accusa di essere stato l’esecutore materiale del delitto. Nel 2019, la Suprema Corte ha confermato la condanna, escludendo in via definitiva la possibilità di una revisione. Esposito invece viene condannato a sette anni e quattro mesi. Nel processo finisce anche Cosimo Di Lauro, che nel dicembre del 2008 viene condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio, prima di essere assolto dall’accusa nel dicembre del 2010. Altre sette persone sono state indagate per la morte di Gelsomina, ma le condanne restano solo quelle di De Lucia ed Esposito.
Memoria viva
La storia tragica di Gelsomina è stata raccontata molte volte in questi anni, diventando quasi un racconto esemplare della crudeltà e della ferocia della camorra. È accaduto con una puntata della prima stagione di Gomorra e poi, negli anni, con il film di Massimiliano Pacifico “Gelsomina Verde”, in cui ha recitato anche suo fratello Francesco. Anche lui ha conosciuto il carcere prima di intraprendere un nuovo percorso di riscatto.
Mia sorella non aveva intenzione di cambiare il mondo - ha raccontato - voleva avere la possibilità di vederlo in modo diverso. Eravamo molto legati perché i nostri genitori lavorano e noi trascorrevamo tanto tempo insieme. La sua morte ha smosso le coscienze di tante persone e oggi Scampia non è più la più grande piazza della droga come vent’anni fa.
Di Mina hanno scritto anche Giuliana Covella nel suo libro “Fiore… come me” e Tonino Scala nel volume “Nella terra di Gomorra”. In suo nome sono nati a Scampia il Collettivo Mina e, in una ex scuola abbandonata, l’Officina delle Culture. A lei è intitolato anche il Presidio di Libera di Mondovì.