7 febbraio 1986
Brancaleone (RC)

Filippo Salsone

Brancaleone è un piccolo paese della Locride, in provincia di Reggio Calabria, poco più a est della punta estrema dello stivale, conosciuto come la "città delle tartarughe di mare". Fu qui, in questo lembo di terra della Calabria ionica, che, nel maggio del 1935, Cesare Pavese fu confinato dal regime fascista. E fu qui che, sette anni più tardi, il 28 maggio del 1942, nacque Filippo Salsone, terzo di quattro figli.

Una famiglia umile e modesta la sua. Suo padre faceva lo stagnino, riparava pentole e utensili di rame. Sua madre invece, accudiva i figli e si occupava della casa. Un’economia domestica fragile, alla quale bisognava contribuire tutti. Per questo, ad appena 11 anni, Filippo viene spedito a Pavia per restarci tre anni. Poi il trasferimento in Lussemburgo, dove rimane fino al compimento del diciottesimo anno per lavorare in una fabbrica. Infine il rientro in Calabria, dove era stato richiamato per il servizio militare. Qualche anno più tardi, nel settembre del 1967, Filippo sceglie la sua strada e si arruola nel Corpo degli Agenti di custodia, l’attuale Polizia Penitenziaria, all’epoca un corpo militare. I sacrifici compiuti sin da bambino gli hanno insegnato il senso della disciplina, fondamentale per la vita militare. Ma Filippo è molto di più: è un uomo onesto, perbene, integerrimo. Ed è così che si dimostra sin dai primi anni di servizio presso il carcere di Messina, dove resterà fino al 1977. Anni nei quali cominciano già gli atti intimidatori e le minacce per costringerlo ad “ammorbidirsi”.

Intanto, Filippo costruisce anche la sua famiglia. Conosce Concetta Minniti e nel 1970 i due si sposano. Lei è di Bruzzano Zeffirio, un paese ancora più piccolo di Brancaleone, alle pendici del monte Bruzio. Dal loro amore, nascono due figli: Antonino nel 1971 e Paolo nel 1974. Una famiglia bella e tranquilla, che, nonostante gli impegni di lavoro, Filippo non trascura mai. La sua carriera va avanti e crescono anche le responsabilità. Presta servizio con ruoli importanti in molti istituti penitenziari: da Messina a Reggio Calabria, da Palmi a Crotone, da Cosenza a Lamezia Terme, fino a Napoli. Ovunque, si fa riconoscere per il suo rigore e per la sua serietà. Con Filippo non esistono scorciatoie, privilegi, corsie preferenziali. Le regole sono regole.

La collaborazione con Sergio Cosmai

Il periodo di lavoro a Cosenza, in particolare, segna una svolta nella vita e nella carriera di Filippo. Quando arriva a comandare gli Agenti di custodia del carcere cosentino, a dirigere la struttura c’è Sergio Cosmai. Il destino incrocia le storie di questi due uomini coraggiosi e integerrimi, due servitori dello Stato dalla schiena diritta. Il direttore è esattamente come lui. Non accetta compromessi e non vuole sentire ragioni: i regolamenti carcerari non ammettono deroghe o scappatoie. Tra i due nasce una relazione professionale molto forte e in breve Filippo diventa il braccio destro di Sergio. Quando Cosmai viene assassinato, il 13 marzo del 1985, Filippo lavora al carcere di Reggio. La ‘ndrangheta decide di punire il direttore per la sua intransigenza. Il maresciallo Salsone ne rimane colpito e addolorato. Sa perfettamente le ragioni alla base di quell’omicidio, perché in qualche modo le ha viste maturare negli anni di Cosenza. Accanto a Sergio, c’era lui. Ma questa consapevolezza non lo fa indietreggiare di fronte alla necessità di continuare a fare il suo lavoro. Proprio a Reggio Calabria, si scontra duramente con i suoi superiori, ai quali, da vicecomandante, rimprovera di non far rispettare i regolamenti. Per lui, qualsiasi cedimento di fronte alle proprie responsabilità è inconcepibile e intollerabile.

Il 7 febbraio del 1986

Nel 1986 Filippo non lavora in Calabria. Da non molto, è stato mandato in missione in Campania, a Napoli, come comandante delle guardie carcerarie di Poggioreale. Nei primi giorni del mese di febbraio, il comandante decide di approfittare di alcuni giorni di congedo per tornare a Brancaleone dalla sua famiglia. Il 7 febbraio è un venerdì e Filippo con Concetta, Antonino e Paolo decide di andare a cena a casa dei suoceri, a Bruzzano. Sono pochi minuti di macchina da casa, non più di cinque chilometri verso l’interno. Intorno alle 20.30, la famiglia è di rientro a casa, in contrada Razzà, a bordo della Fiat 126 azzurra di Concetta. Filippo entra in casa per uscirvi pochi minuti dopo e dar da mangiare al cane. Accade tutto in pochi secondi: dal secondo piano di una casa in costruzione, a una trentina di metri da casa Salsone, partono una serie di colpi di lupara. Filippo viene colpito a morte, a 43 anni, e spira pochi istanti dopo, tra le braccia di Antonino, allora quattordicenne, accorso per soccorrerlo. Paolo invece, che di anni ne ha 11, assiste alla scena da dietro a una finestra di casa. Un colpo però lo raggiunge alla testa, ferendolo gravemente. Lotterà tra la vita e la morte per oltre un mese, ricoverato agli Ospedali Civili di Reggio Calabria. Poi, fortunatamente, si riprenderà.

Vicenda giudiziaria

Le ragioni dell’omicidio sembrano a tutti abbastanza ovvie: eppure le indagini arrancano. Si seguono diverse piste. La prima, battuta negli anni immediatamente successivi al delitto, porta al carcere di Reggio Calabria e a quei contrasti sorti con i superiori sulla gestione dell’istituto. Ma i riscontri non arrivano. Poi nel 1995, la svolta. Franco Pino, un pentito di ‘ndrangheta, comincia a fornire agli inquirenti indicazioni preziose sull’omicidio Salsone. Dichiarazioni arricchite dalle rivelazioni di altri collaboratori di giustizia. Pino suggerisce ai magistrati della DDA di Cosenza di guardare agli anni della presenza di Filippo proprio nel carcere cosentino e al suo rapporto di collaborazione con Cosmai. I quattro killer che avevano assassinato Cosmai nel 1985 erano stati armati da Franchino Perna, storico rivale della cosca di Pino. Fu proprio questa rivalità a far decidere a Pino di uccidere anche il più stretto collaboratore di Cosmai, Salsone appunto, con l’appoggio dei boss del reggino, che eseguirono il delitto. Un modo per dimostrare in qualche modo di non essere da meno sul piano militare. Una ragione assurda. Successivamente, Pino si autoaccusò di essere il mandante di quell’omicidio, delegando l’esecuzione ad alcuni personaggi di Africo.

Eppure, nonostante tutto, la giustizia non fa il suo corso e, ancora oggi, mandanti ed esecutori dell’assassinio di Filippo Salsone non hanno né nome né volto. Nel luglio del 2020 si diffonde la notizia secondo la quale la DDA di Reggio Calabria avrebbe intenzione di riaprire le indagini, ripartendo proprio dalle deposizioni di Pino. Ma finora nulla di concreto.

Ho trovato la forza di superare quella tragedia proprio in mio padre. Nel suo ricordo, nella sua memoria. Nel fatto che io volevo essere un degno figlio per lui. È lui che mi ha dato e mi dà la forza. L’amarezza mia, di mio fratello, di mia madre e di mio zio nasce dal fatto che l’uccisione di mio padre debba per forza rimanere nel dimenticatoio di questa Repubblica. E noi questo non lo accettiamo. A fronte delle dichiarazioni del pentito Pino, noi non abbiamo mai saputo niente di ufficiale. Non abbiamo una informativa ufficiale da parte degli organi inquirenti. Quello che sappiamo lo abbiamo ricavato dai mass media e da una continua opera di collazione su internet. Io non so se il Pino, reo confesso, sia ancora vivo o carcerato. Non ne sappiamo nulla. Abbiamo chiesto all’autorità giurisdizionale ed alla DDA “cosa state facendo. Ancora attendiamo una risposta.
Antonino - figlio di Filippo

Memoria viva

L’anno successivo al suo omicidio, Filippo viene dichiarato vittima del dovere. Ma i suoi familiari, da subito, portano avanti la tesi che quella morte, oltre che con il lavoro che svolgeva il loro caro, abbia a che fare anche con la mafia. Provano così a far ottenere a Filippo il riconoscimento ministeriale di vittima della mafia. Ma non ci riescono, non potendo contare su una sentenza.

Il 12 maggio 2010, in occasione della festa della Polizia Penitenziaria, Antonino, insieme a sua madre Concetta e suo fratello Paolo, riceve dalle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la Medaglia d’Oro al Merito Civile.

Consapevole del grave rischio personale, si impegnò con coraggio e fermezza a ripristinare il rispetto delle regole e la disciplina all’interno di alcuni Istituti penitenziari, ove erano detenuti elementi di spicco delle locali cosche criminali, rimanendo quindi vittima di un vile agguato. Fulgido esempio di elevato spirito di servizio e non comune senso del dovere, spinti sino all’estremo sacrificio.
Motivazione Medaglia d’oro al merito civile

Qualche anno prima, nel 2007, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva deciso di intitolare il carcere di Palmi, il penitenziario più importante della Calabria, a Filippo Salsone.