Biagio Siciliano aveva 14 anni, era nato nel 1971. La sua faccia, i tratti tipici di un adolescente timido ma maturo per la sua età. Amava studiare, Biagio, e per questo aveva scelto di iscriversi al Liceo Classico “Giovanni Meli”. Con la sua famiglia, papà Nicola, operaio ferroviario della Keller, mamma Maria Stella e i suoi fratelli minori, viveva a Capaci, pochi chilometri dalla città. Ma era un sacrificio che avrebbe fatto volentieri, quello di andare avanti e indietro sulla corriera, pur di assecondare quella passione profonda per lo studio.
Frequentava il primo anno del Liceo, la quarta ginnasio, sezione D. Era un ragazzo felice, nonostante intorno a lui si agitasse ogni giorno una città inquieta, una Palermo blindata. Sono gli anni del pool antimafia, del lavoro di un gruppo di magistrati che sta per mettere in piedi il più grande processo penale mai celebrato in un’aula di giustizia italiana. Il maxiprocesso a Cosa Nostra sarebbe cominciato di lì a pochi mesi, nel febbraio del 1986. Faceva il tifo per quei magistrati, Biagio, ma in fondo aveva 14 anni, una vita davanti e tanto altro a cui pensare.
Sognava di diventare un veterinario, si prendeva cura di tutti gli animali. A casa aveva un gatto, compagno inseparabile. E passava i pomeriggio a giocare a pallone con i fratelli più piccoli davanti la loro casa a Capaci. Gli piaceva correre dietro al pallone, frequentava anche la scuola calcio a Capaci.
Il 25 novembre del 1985
Quel lunedì 25 novembre si era alzato di buon’ora, come ogni giorno di scuola, per arrivare in tempo alla fermata dell’autobus che lo avrebbe portato a Palermo. Le ore di lezione, le declinazioni e i verbi irregolari, e poi la campanella alle 13.30. Il liberi tutti che segnava la fine della giornata e il ritorno a casa. Ma il destino a volte sa essere davvero beffardo.
La fermata dell’autobus di Piazza Croci dista una manciata di metri dal portone di ingresso del Liceo. Pochi passi e qualche minuto di attesa prima di salire. Un’abitudine che Biagio condivideva con decine di altri studenti del Meli, che anche quel 25 novembre erano lì con lui, ad aspettare la corriera. Due chiacchiere, uno sguardo a qualche ragazza, un bilancio della mattinata tra i banchi. Alle 13.40 ad attirare l’attenzione dei giovani furono le sirene di tre auto. Ma anche quella era un’abitudine ormai in quella Palermo blindata in cui le corsie di emergenza, oltre che per autobus e taxi, servivano a fare spazio alle auto blindate e a quelle di scorta. Le sirene arrivavano da via Libertà, proprio dietro l’angolo di Piazza Croci. Biagio sentì quel rumore assordante avvicinarsi sempre di più. Era convinto che, di lì a qualche secondo, quelle auto sarebbero passate sfrecciando e quel rumore si sarebbe via via allontanato con loro. Fino alla prossima sirena. Le vide arrivare da lontano quelle auto. Accadde tutto in una frazione di secondo.
Il corteo era composto da tre auto: due gazzelle e una macchina blindata. Poco più avanti, una Fiat Uno invase la corsia. Per la prima auto di scorta non ci fu scampo: l’impatto fu inevitabile. Così come la carambola di auto che ne seguì e che scaraventò la macchina di scorta proprio lì, sulla fermata del bus. Rimasero a terra una trentina di feriti. Biagio non dovette accorgersi di nulla. Rimase schiacciato sotto l’auto e la sua corsa in ospedale fu inutile. Morì così, a 14 anni, mentre aspettava la corriera che lo avrebbe riportato a casa, in quella calda giornata di estate novembrina.
Quella mattina Biagio era nervoso. Non mi diede nemmeno un bacio di saluto: “Mamma, quando tornerò…”. Nella camera mortuaria dell’ospedale Civico, mentre piangevo, incrociai due occhi che mi fissavano, quasi bruciandomi per l’intensità dello sguardo. Era il giudice Borsellino.
Sì, era Paolo Borsellino. Su quell’auto blindata c’erano lui e Leonardo Guarnotta, due di quei magistrati del pool per i quali tanti studenti facevano il tifo perché, loro che erano i buoni, quelli che avrebbero sconfitto i cattivi della mafia. Quella mafia che, sebbene indirettamente, si era portata via la vita di questo ragazzo timido e amante dello studio.
Così come pochi giorni più tardi, il primo dicembre, dopo una drammatica agonia, si portò via un’altra giovane vita, quella di Giuditta Milella, 17 anni, studentessa del Meli. Anche lei vittima innocente di una mafia che faceva morti anche senza sparare.
Memoria viva
A Biagio e a Giuditta è dedicato Presidio di Libera a Udine.
Sul tragico incidente, Roberto Puglisi ha scritto il libro “25 novembre 1985” edito da Sigma.