È un racconto nient’affatto semplice quello della vita di Mauro Rostagno. Non è semplice seguirne gli sviluppi e le evoluzioni. Non è semplice ricostruirne i viaggi, le scelte, i cambiamenti così frequenti e così radicali. Non è semplice neppure raccontare cosa è avvenuto quando quella vita è stata spenta barbaramente a colpi di fucile e pistola. Perché ci sono voluti 23 anni per avviare un processo e altri 10 ancora perché si concludesse. Nel mezzo, archiviazioni, depistaggi, sottovalutazioni, errori e leggerezze investigative, piste fantasiose dapprima battute e poi abbandonate.
I genitori di Rostagno erano due operai piemontesi, entrambi dipendenti della Fiat. Quando Mauro nasce, il 6 marzo del 1942, la sua famiglia vive in una casa popolare di corso Dante a Torino. Ed è in questo contesto che Mauro vive l’infanzia, l’adolescenza e gli anni della sua prima formazione umana e intellettuale. Frequenta il liceo scientifico ma non riesce a conseguire il diploma, perché, appena diciottenne, sposa una ragazza di poco più giovane di lui, dalla quale aveva avuto un figlio. È il 1960.
Ma Mauro si sente stretto in quel contesto. E così, pochi mesi dopo quel matrimonio, decide di lasciare tutto - casa, famiglia, figlio, città - e di partire dall’Italia. Si stabilisce dapprima in Germania e poi in Inghilterra, dove per sopravvivere accetta i lavori più umili. Poi il ritorno a Milano, dove finalmente si diploma e comincia a dare corpo al suo sogno di diventare un giornalista.
È molto interessato alla politica e a ciò che accade nel mondo. Vuole essere parte del suo tempo, combattere le cose che non gli piacciono. Lo fa mettendo in gioco se stesso, il suo corpo. Come quando, durante una protesta dinanzi al consolato spagnolo, rischia di essere investito da un tram.
Tuttavia, neanche questa volta si sente soddisfatto. Così riparte verso la Francia. A Parigi rimane per poco, espulso dalla polizia che lo ferma durante una manifestazione giovanile.
Così torna in Italia e decide di iscriversi alla facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Trento. Sono anni di intensa attività politica, che lo vedono in breve tempo diventare un vero e proprio punto di riferimento della protesta giovanile della seconda metà degli anni ‘60. Da militante del PSIUP, sin dal 1966 è attivissimo negli ambienti del movimento studentesco universitario. Accanto a lui ci sono altri protagonisti di questa stagione di forte contestazione, tra cui Marco Boato, Renato Curcio, Margherita Cagol, Marianella Pirzio Biroli. Alcuni, come Curcio, faranno percorsi ancora più radicali, scegliendo la via della lotta armata. Ma Mauro, da convinto non violento, non prende minimamente in considerazione questa opzione, cui è profondamente contrario.
Il suo percorso culmina invece, nell’autunno del 1969, nella fondazione di un nuovo movimento politico, Lotta Continua, che diventerà una delle maggiori formazioni della sinistra extraparlamentare italiana. Con lui ci sono Adriano Sofri, Guido Viale, Marco Boato, Giorgio Pietrostefani, Paolo Brogi, Enrico Deaglio. All’attività politica, che si fa via via più intensa, Mauro accompagna un percorso di studi che, finalmente, si conclude nel 1970 con una tesi sul tema del rapporto tra partiti, sindacati e movimenti di massa in Germania. Anche in questo caso sceglie una via non facile, quella di una discussione fortemente provocatoria, che tuttavia non gli impedisce di conquistare il massimo dei voti e la lode accademica.
Nei due anni successivi, lavora come ricercatore al CNR e poi, tra il ’72 e il ’75, si stabilisce a Palermo, dove ottiene l’incarico di assistente universitario presso la cattedra di sociologia. Come esponente di Lotta Continua, nel 1976 si candida alla Camera dei Deputati nelle liste di Democrazia Proletaria nei collegi di Milano, Roma e Palermo, sfiorando l’elezione. Ma sul finire di quello stesso anno l’esperienza di Lotta Continua finisce nello scioglimento della formazione politica.
Rostagno torna allora a Milano e, nel dicembre del 1977, fonda il Macondo, un centro culturale anch’esso in breve tempo diventato un punto di riferimento negli ambienti della sinistra estrema. Anche questa esperienza però dura poco: il 22 febbraio del ’78 la polizia lo chiude e lo stesso Rostagno viene arrestato con l’accusa di un traffico di droga che si sarebbe sviluppato all’interno del Macondo. Accusa dalla quale verrà poi prosciolto.
A Milano, nel 1970, Mauro aveva conosciuto Elisabetta “Chicca” Roveri, la donna che, da quel momento, lo avrebbe accompagnato sino ai suoi ultimi giorni e che gli avrebbe dato una figlia, Maddalena. Con loro due, dopo la chiusura di Macondo, si trasferisce in India. Nei giorni del carcere, aveva avuto modo di leggere un libro del guru Osho, al secolo Bhagwan Shree Rajneesh. Si appassiona a quella dottrina e, arrivato in India, decide di unirsi al movimento degli arancioni fondato da Osho, divenendone seguace fino a scegliere di cambiare il suo nome in Swami Anand Sanatano. Siamo nel 1979.
Fortemente condizionato da questa esperienza, l’anno successivo rientra in Italia per stabilirsi in Sicilia, alla frazione Lenzi del comune di Valderice, in provincia di Trapani. Qui, insieme a Chicca Roveri e all'ex editore Francesco Cardella, anch’egli reduce dall’esperienza indiana, fonda Saman, una comune arancione nata come centro di meditazione che poi, nel 1981, si trasforma in una comunità terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti e degli alcolisti.
Dalla metà degli anni ’80 si dedica assiduamente al giornalismo, lavorando presso l’emittente Radio Tele Cine. Utilizza il suo lavoro per appassionate inchieste contro la mafia del trapanese, denunciando con fermezza le relazioni perverse e le collusioni che essa era stata in grado di costruire con ambienti compiacenti della politica locale. Ed è in questo contesto che, come in molti intuirono sin da subito e come solo 33 anni dopo ha appurato una sentenza definitiva, matura la sua morte.
Il 26 settembre 1988
La sera del 26 settembre 1988 Mauro stava rientrando a Lenzi a bordo della sua Fiat Duna bianca. Con lui viaggiava una giovane ospite della comunità, che, come diversi altri, gli dava una mano nel suo lavoro di giornalista. Giunto a poche centinaia di metri dalla struttura, dal bordo della strada alcuni uomini esplosero contro l’auto alcuni colpi di un fucile a pompa calibro 12 (esploso peraltro tra le mani dell’assassino) e di una pistola calibro 38.
La ragazza si accovacciò e scampò all’agguato, diventando di fatto l’unica testimone del delitto. Per Mauro, invece, non ci fu scampo. Morì così, a 46 anni.
La vicenda giudiziaria
Quello che accadde dopo è un intreccio quasi inestricabile di vicende giudiziarie, depistaggi, notizie false fatte circolare ad arte. Un groviglio nel quale è davvero difficile cogliere una traccia univoca.
Bettino Craxi, il deputato socialista Claudio Martelli, la stampa locale e anche molti ambienti investigativi sin da subito indicano la strada del delitto di mafia come quella da battere. Ma questa tesi si mischia a molte altre, alcune delle quali rivelatesi poi assolutamente inconsistenti. Come quella che legava la morte di Rostagno all’omicidio di Mario Calabresi. O quella per la quale il delitto sarebbe maturato negli ambienti stessi della comunità, coinvolta in un traffico di stupefacenti. O, ancora, un’altra pista, secondo la quale la morte di Rostagno sarebbe stata legata alla scoperta di un traffico d'armi con la Somalia.
E così, tra carenze investigative e false piste, si arriva al febbraio del 2011, quando, a distanza di 23 anni dalla morte di Mauro Rostagno, si apre a Trapani il processo di primo grado contro Vincenzo Virga e Vito Mazzara, entrambi boss di Cosa nostra nel trapanese e ritenuti il primo mandante e il secondo esecutore del delitto. Nel maggio 2014 i due vengono condannati all’ergastolo.
Il processo di secondo grado si chiude il 19 febbraio del 2018, con la conferma dell’ergastolo per Virga e l’assoluzione per Mazzara. Infine, nel novembre 2020, a 33 anni dalla morte di Mauro, anche la Cassazione conferma la condanna per Virga.
Nel gennaio successivo, vengono rese pubbliche le motivazioni della sentenza, secondo la quale “Francesco Messina Denaro - padre di Matteo - disse di aver dato incarico a Vincenzo Virga di eseguire l’omicidio di Mauro Rostagno”. Un particolare questo riferito anche dal collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori e considerato dai giudici “per nulla incompatibile con la ricostruzione di come operassero gli organi di vertice di ‘cosa nostra’ nella deliberazione di omicidi eccellenti”. Quello in cui si è stabilita la morte del giornalista, dunque, è contesto decisionale totalmente mafioso da escludere “piste alternative” o “ripensamenti”.
Memoria viva
È stata ed è tuttora molto forte l’influenza della vita e dell’azione antimafia di Mauro Rostagno sulla cultura di massa. Premi, rassegne, luoghi di memoria gli sono stati dedicati in tutta Italia. Nel 1999, è stato iscritto “alla memoria” all’Albo dei Giornalisti della Sicilia, a far data dal giorno della sua morte. Molte le opere letterarie scritte da Mauro o a lui dedicate. Tra queste ultime, in particolare, il libro “Il suono di una sola mano. Storia di mio padre Mauro Rostagno”, scritto nel 2011 da Maddalena Rostagno con Andrea Gentile.
Inizialmente avevo solo un gran rifiuto, non me ne fregava niente, non volevo saperne niente. Solo anni dopo ho iniziato a leggere tutte le cose che mia madre aveva conservato negli anni. Ma sono pochissime le persone a cui concedo di parlarmi di Mauro personalmente, dei loro ricordi. E mi riferisco a persone care, amici di famiglia. Mia madre mi prende anche un po’ in giro e mi chiede quando mai le permetterò di parlarmi di Mauro. Ma per me è ancora tutto molto doloroso. Di certo tutte le volte che qualcuno mi racconta di Mauro mi manca non aver potuto vivere personalmente quelle storie. Ovvio, sono la figlia e non avrei certo potuto essere con lui all’università, ma mi manca che non sia lui a raccontare. Appena inizia il racconto penso: perché non sono con lui? Perché non me le racconta lui queste storie?.
A lui sono dedicati il Presidio di Libera ad Alba, quello studentesco bolognese e il Performing Media Lab, un bene confiscato alla camorra alla periferia di Torino, divenuto un laboratorio di sperimentazione e riflessione sui nuovi media.
E c’è una frase che, più di tutte, torna spesso alla mente di chi, nel proprio impegno antimafia, rivive e fa rivivere la memoria di Mauro. Una frase semplice eppure così intensa e feconda:
La lotta alla mafia è gioia di vivere.