2 luglio 1987
Imola (BO)

Amedeo Damiano

Siamo nel cuore della tranquilla provincia piemontese, ai piedi del Monviso. E' in questo scenario, ritenuto troppo a lungo estraneo alla presenza mafiosa, che si consuma la vicenda tragica di Amedeo Damiano. Un uomo integerrimo e rigoroso, nella vita come nel lavoro, che dalla mafia e dalla sua cultura è stato travolto e ucciso. A 30 chilometri da Cuneo, nel profondo nord

Classe 1939, Amedeo era nato a Milano, da Andrea Damiano e Maria Alessandra Canegallo. Suo padre era stato direttore del giornale democristiano Il Popolo. Sua madre, invece, per quarant’anni aveva insegnato materie scientifiche in un liceo del capoluogo lombardo. Una famiglia di saldi principi, che aveva avviato Amedeo ad un'educazione assai rigida. Quei principi lui li avrebbe portati sempre con sé, fino al suo ultimo respiro. Riferimenti costanti all’onestà, alla correttezza, al rigore morale che avrebbero orientato tutte le sue scelte.

La prima volta a Saluzzo Amedeo arrivò molto giovane, ai tempi del servizio militare. Erano gli anni ’60 e nella provincia piemontese, conobbe e si innamorò di Giuliana Testa, che sarebbe ben presto diventata sua moglie. Con lei, decise di tornare a Milano, dove Giuliana diede alla luce i loro due figli, Giovanni e Andrea.

Amedeo lavorava all’epoca a pochi passi da piazza Fontana. Alle 16.37 del 12 dicembre 1969, sette chili di tritolo fecero saltare in aria la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura uccidendo 16 persone (la diciasettesima sarebbe morta un anno dopo per le conseguenze dell’esplosione) e ferendone altre 88. La deflagrazione mandò in frantumi anche i vetri dell’ufficio di Amedeo. Fu uno shock terribile per tutto il Paese e, naturalmente, anche per lui, che decise così di lasciare la città e rifugiarsi nella tranquillità della provincia. Decise di tornare a Saluzzo.

Video testimonianza di Giovanni Damiano, figlio di Amedeo Damiano

Qui Amedeo aprì un’agenzia di assicurazioni, in pieno centro città, a pochi passi dall’appartamento di corso Italia in cui si era trasferito con tutta la sua famiglia. Ma il lavoro non era affatto l’unica attività cui si dedicava. C’era la passione per la politica, che aveva ereditato da suo padre e che, negli anni, lo aveva spinto a diventare dirigente della Democrazia Cristiana, pur senza mai accedere a cariche istituzionali. C’era il lavoro nell’Associazione nazionale degli allevatori di bovini di razza piemontese, che lo chiamò anche a svolgere le funzioni di presidente. C’è stato, per un periodo, anche il delicato ruolo di presidente della casa di riposo della città, l’Opera Pia Tapparelli. Ruoli pubblici che occupavano tanta parte delle sue giornate e ai quali si dedicava senza mai abdicare a quei valori e a quei principi in cui aveva creduto sin da ragazzo. Un rigore morale, una indisponibilità al compromesso, un’etica della responsabilità che gli venivano riconosciuti da tutti. Persino dai suoi avversari. Come quando, alla metà degli anni ’80, si trattò di diventare presidente dell’Unità Socio Sanitaria Locale 63 di Saluzzo, carica che rivestì grazie anche ai voti dei comunisti. Carica cui è legato indissolubilmente, purtroppo, il suo tragico destino.

Amedeo fu individuato per svolgere le delicate funzioni di capo della USSL per le sue spiccate e indiscusse doti e capacità manageriali, ma anche per le sue comprovate doti morali. E lui seppe interpretare alla perfezione quelle doti, dedicandosi senza tentennamenti ad un’opera di moralizzazione della sanità locale. Avviò un lavoro delicato e difficile, attirandosi la stima di molti ma anche le antipatie di altri, che invece avrebbero voluto che gestire le cose fosse qualcuno di meno attento, più superficiale, più accondiscendente. Lui non era così e lo avrebbero capito presto tutti. L’ambiente del resto non era per nulla facile: privilegi, baronie, piccole e grandi illegalità si erano sedimentate nel corso del tempo e così, quando i sindacati gli segnalarono alcune presunte irregolarità, lui non esitò un attimo ad avviare delle approfondite indagini interne. E poi a trasmettere tutti gli atti alla Procura della Repubblica. Ne seguirono un processo e delle condanne per truffa. Aveva scoperchiato un vaso di Pandora che in molti avrebbero preferito tenere ben chiuso.

Trovò un ambiente difficile, dove alcuni baroni spadroneggiavano nella sanità ospedaliera, alla continua ricerca di vantaggi personali. C’erano in ballo interessi economici importanti, legati allo sviluppo della struttura sanitaria. A farla breve, mio padre, persona poco incline al compromesso, finì per essere di ostacolo soprattutto ai piani dell’allora direttore sanitario.
Giovanni Damiano - figlio di Amedeo

24 marzo 1987

Il 24 marzo del 1987 era un venerdì. La settimana lavorativa volgeva al termine. Poco prima delle 20.00, Amedeo aveva lasciato l’agenzia assicurativa e si era incamminato a piedi verso lo stabile di corso Italia 66, dove lo attendeva la sua famiglia per la cena, a pochi passi dal monumento dedicato a Silvio Pellico.

Varcato il portone di ingresso del palazzo, notò due giovani ben vestiti. Non ebbe il tempo, forse, di riflettere su quello che stava per succedere. Uno dei due gli chiese se fosse lui il presidente dell’USLL. Istintivamente risposte di sì. In quel momento si rese conto che l’uomo stava estraendo una pistola. Tentò di fermarlo. Ne nacque una colluttazione violenta, che indusse il secondo killer a intervenire e a sparargli alla schiena. Poi anche l’altro infierì sul suo povero corpo, riverso a terra in una pozza di sangue. Alla fine, Amedeo fu raggiunto da cinque colpi di pistola calibro 7,65 e calibro 38, che gli si conficcarono nelle gambe e alla schiena.

I killer scapparono da un vicolo vicino, dove ad attenderli c’erano altri due uomini, uno alla guida di una Lancia Delta, l’altro a fare da palo. In serata, il gruppo di fuoco avrebbe lasciato una traccia inequivocabile del proprio passaggio, andando fuori strada con la macchina all’altezza di Casalgrasso, rapinando di una Fiat Uno un ignaro automobilista che si era fermato per prestare soccorso e poi dandosi nuovamente alla fuga.

Intanto la vita di Amedeo sembrava appesa a un filo. Fu trasportato alle Molinette di Torino, dove la situazione apparve immediatamente molto seria. Il colpo che aveva raggiunto la colonna vertebrale quasi certamente lo avrebbe paralizzato. Lui però era vivo e riuscì a parlare finanche con gli inquirenti: aveva visto in faccia i malviventi, ma non avrebbe saputo indicarne l’identità, perché non li conosceva. Gravemente ferito, continuava a non darsi pace e a capire chi e perché avrebbe voluto vederlo morto. La situazione sembrò volgere al meglio. Amedeo resisteva, nonostante le sofferenze atroci per le ferite riportate nell’agguato. Iniziò il percorso di riabilitazione, che, nelle speranze dei medici, lo avrebbe riportato lentamente a recuperare l’uso degli arti inferiori. Dapprima a Torino, poi all’ospedale di Saluzzo e, infine, all’istituto di riabilitazione Montecatone di Imola.

2 luglio 1987

100 giorni. Tanto durarono le speranze di rivederlo tornare a casa, prima di infrangersi definitivamente. Il 2 luglio un embolo lo uccise mentre era ricoverato nel centro di riabilitazione. Aveva 48 anni, una moglie e quattro figli, con un’età compresa tra i 17 e i 2 anni.

La comunità di Saluzzo rimase sconvolta dalla notizia della sua morte. Fu un colpo durissimo e un altrettanto duro bagno nella realtà: a Saluzzo si sparava per uccidere un uomo che serviva le Istituzioni pubbliche.

Vicenda giudiziaria

Le rivelazioni di un collaboratore di giustizia, tale Luigi Aversano, indirizzarono qualche tempo dopo le indagini verso alcune figure della malavita torinese. Aversano, in particolare, raccontò ai magistrati che Pancrazio Chiruzzi, con cui spesso si accompagnava in azioni criminali, gli aveva confidato, pochi giorni dopo l’attentato, che “Pinti e Sartorelli avevano avuto il mandato di gambizzare il presidente dell’USSL, ma che il primo era stato invece maldestro, colpendo con la pistola la vittima in parti vitali”.

I due citati nella deposizione sono Alessandro Pinti e Marco Sartorelli, altri due esponenti della criminalità torinese, ritenuti, insieme agli altri, vicini alla ‘ndrina dei Belfiore, coinvolta anche nell’omicidio del procuratore Bruno Caccia.

I tre, dunque, avrebbero dovuto soltanto ferire Damiano e non procurarne la morte. Un modo, evidentemente, per punirlo per quel suo essere estremamente inflessibile e troppo ligio al dovere. Finiscono ad ogni modo a processo. Nel maggio del 2005 arrivano le condanne definitive a 18 anni per Sartorelli e Pinti, accusati di omicidio preterintenzionale, e a 14 anni per Pancrazio Chiruzzi, accusato invece di concorso in omicidio.

Nessuno di loro ha mai aperto bocca sul mandante dell’attentato, tutt’ora ignoto. L’unico nome accostato dagli inquirenti a questo ruolo è stato quello di Pierluigi Ponte, un ginecologo che aveva avuto forti contrasti con Amedeo. Si è fatto 40 giorni di carcere ma poi è stato scagionato per insufficienza di prove. Ad oggi, dunque, per la morte di quest’uomo rigoroso è stata fatta giustizia solo a metà.

A volte penso che di fronte a vicende tristi come questa, nella gestione di questi ricordi, si sia chiamati a scegliere tra due percorsi diversi. Il primo è quello di buttare via tutto, di cancellare, di radere completamente al suolo la memoria di chi non c’è più. Oppure si può tenere stretto quest’insieme di immagini, convivendoci, facendole diventare in qualche modo amiche.
Io ho scelto la seconda strada e questo mi ha procurato gioia e dolore allo stesso tempo. Un dolore intimo e profondissimo. Ma anche una gioia uguale e contraria, altrettanto intima e profondissima.
Dietro questi nomi, dietro i nomi di Bruno, di Carlo Alberto e da oggi anche di Amedeo come di tanti altri, ci sono infatti storie di dolore, di annientamento e di lutto, ma ci sono anche storie di vita, fatte di abbracci, di tenerezze, di mare, di musiche e di pranzi chiassosi.
Questa parte del ricordo di mio padre è per me - e forse un po’ per tutti noi oggi - il tesoro più prezioso, che stringo a me ogni notte.
Giovanni Damiano - figlio di Amedeo

Ad Amedeo non è stato mai riconosciuto lo status di vittima innocente delle mafie né, tantomeno, di vittima del dovere. La sua memoria, però, oggi è più che mai viva.

Nel 2020, il suo nome è stato inserito nell’elenco delle vittime innocenti delle mafie che, ogni anno, viene letto in occasione del 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Un momento di passaggio importante, al pari dell’intitolazione ad Amedeo di un Presidio di Libera.

Alla sua memoria è dedicato lo spettacolo teatrale “Senza motivo apparente”, scritto e interpretato da Christian La Rosa, che vede come prima fonte d’ispirazione il testo firmato da Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”, acquisito agli atti processuali grazie alla precisa ricostruzione dei fatti.

Per mantenere viva la memoria di Amedeo Damiano, Libera Piemonte e Acmos hanno realizzato il video “Amedeo Damiano – La storia del suo assassinio”, in cui sono raccolte le testimonianze di suo figlio Giovanni e di Sergio Anelli.