Il commosso ricordo di Vincenzo Grasso
di Stefania Grasso
Non ricordo lucidamente la sera del 20 marzo 1989. Io avevo 19 anni. Ho in mente piccoli momenti. Io che ti saluto sotto casa. Tu che mi dici fai attenzione in macchina. Io che sento le sirene, che guido verso casa, che a casa non arrivo per la confusione di gente. Io che parcheggio e cerco comunque di arrivare. Il mio professore d’inglese del liceo che incrocia il mio sguardo e poi, poi lo sposta. Francesco, mio fratello, che mi viene incontro e mi dice di andare via. Il telefono che continua a squillare, a casa di Letizia, ma nessuno che mi dice niente. Sola, in quella stanza, in compagnia del rumore del mare, nitido, in sottofondo. Mia cugina Concetta che mi viene a prendere. Stefania tuo papà ha avuto un incidente. Ah ecco il perché dell’ambulanza sotto casa. Ma ci penso: non è andata via di corsa, si è fermata. Come il tuo cuore. Come la mia vita. E Fabio, l’altro mio fratello, dov’è?? E la mamma? Non lo sa, devi dirglielo tu. Io?! Io non ho la forza. E poi la mia famiglia, la gente. Il mio capo scout che mi dice: “tuo papà ha il volto sereno”. Ma io non ti voglio vedere li, disteso senza vita, in quella bara. Non voglio quell’immagine da portare nella mia mente per tutta la vita. Io posso scegliere. Non come i miei fratelli che ti hanno visto li sul marciapiede sotto casa, riverso a terra dopo che ti hanno chiamato da quella maledetta macchina e ti hanno sparato. Io voglio portare con me il tuo sorriso di quella sera, quando mi hai salutato per l’ultima volta.
30 anni fa. E la paura di dimenticare i particolari del tuo viso. La tua voce. Il tuo modo semplice e profondo di amarci. 30 anni senza di te. Quando racconto ai tuoi nipoti, Vincenzo e Gabriele, come eri, il mio pensiero va a quello che si sono persi, a quello che hai perso tu, a quello che mi perdo io ogni singolo giorno degli ultimi 30 anni.
E faccio fatica a ripercorrerli, a vivere e ricostruire quei giorni, quei primi momenti. La fatica. Fatica quasi a respirare, a camminare, a mangiare, a dormire. Fatica a capire. E adesso che respiro, che cammino, che mangio, che dormo, fatico comunque ancora a capire.
E’ inspiegabile come si possa decidere l’assassinio di un uomo onesto, per bene, padre di famiglia. E’ inspiegabile che, ancora oggi, quegli assassini non abbiano pagato il loro debito con la giustizia. E’ inspiegabile come, invece, abbiamo pagato noi, con il dolore, gli anni della tua assenza. Ed il dolore ci attraversa ancora oggi ogni volta che ti ricordiamo.
Quel 20 marzo di 30 anni fa è diventato per noi “quel giorno”. Siamo andati avanti come tu ci hai indicato, come tu, con il tuo esempio, ci hai educato a fare. E penso che il nostro impegno a non dimenticare, a fare memoria di quello che è successo, a continuare a chiedere giustizia, sia la ragione della nostra vita. E tu ci accompagni, da quel giorno e per sempre, nei nostri cuori e nei cuori di tutti quelli che hanno incrociato il tuo sorriso.