Calogero Di Bona nasce a Villarosa, un piccolo comune della provincia di Enna, il 29 agosto del 1944. Sin da piccolo, Calogero sente crescere dentro di sé un grande senso di giustizia, di rispetto delle regole, dello Stato e delle Istituzioni; ben presto capisce di voler fare attivamente la sua parte e di voler entrare a lavorare nel Corpo degli agenti di custodia. Determinato com’è, nel 1964, all’età di soli 20 anni, riesce ad avverare il suo sogno ed entra nel Corpo come guardia semplice. Calogero fa bene il suo lavoro, fa osservare le regole ed è rispettato da tutti i suoi colleghi per la sua disponibilità e professionalità. Nel giro di pochi anni riesce a crescere di grado sino a diventare maresciallo ordinario.
Calogero, oltre a essere un gran lavoratore, è soprattutto un marito e un padre dolce e presente. È sposato con Rosa da cui ha avuto tre bambini. Vivono nella borgata marina di Sferracavallo e sono una famiglia felice, normale ma soprattutto piena di amore. Calogero è molto legato alla sua famiglia, non appena termina il suo turno di lavoro, corre a casa per trascorrere del tempo con la sua amata Rosa e giocare con i suoi tre bambini.
La vita all’Ucciardone
Viene inviato in servizio presso la Casa Circondariale di Palermo, il carcere dell’Ucciardone, dove trascorrerà quasi tutta la sua carriera lavorativa, impegnandosi per promuovere il pieno rispetto della legalità e delle Istituzioni. Quel carcere è un posto difficile: sono questi gli anni in cui non è ancora entrato in vigore il regime del carcere duro, che verrà introdotto solo nel 1992, pertanto i detenuti condannati per associazione mafiosa non sono soggetti a particolari misure e restrizioni. Al contrario non solo godono dello stesso trattamento e delle stesse libertà che sono previste per gli altri detenuti, ma impongono i loro metodi e la loro violenza anche all’interno dell’istituto penitenziario.
Ma Calogero è un uomo fedele; fedele sia alla legge dello Stato sia alla sua legge morale, che gli impedisce di accettare qualsiasi forma di malcostume e sopruso nelle celle penitenziarie, in cui vuole portare ordine, rispetto delle regole e legalità malgrado l'arrogante potere esercitato dai boss mafiosi detenuti.
E così, in quel clima difficile e teso, il 6 agosto del 1979 accade che il boss Michele Micalizzi e altri cinque mafiosi pestano a sangue l'Agente di Custodia Antonio Angiulli, uno degli agenti della squadra di Calogero. Nonostante la gravità dell'accaduto, la direzione del carcere non prende alcun provvedimento per i responsabili del pestaggio. La storia dovrebbe quindi chiudersi lì, senza nessuna conseguenza, ma ecco che accadde l’imprevisto: una lettera anonima, scritta da alcuni agenti della polizia penitenziaria, denuncia l’accaduto non solo alla Procura generale, ma anche al quotidiano “L’Ora”. In tale lettera - che però non viene subito pubblicata dal giornale - si legge tra l’altro: «Se fosse stato un altro detenuto veniva subito isolato invece il bastardo, condannato a 20 anni per l’uccisione del nostro compianto collega Cappiello, viene trattato con i guanti bianchi».
Dopo l’invio di quella missiva scatta subito un’ispezione al carcere dell’Ucciardone che manda i mafiosi su tutte le furie. E la loro reazione non si farà attendere troppo a lungo. Ha inizio un’escalation di episodi intimidatori ai danni delle guardie carcerarie da parte dei boss, che mirano a sapere chi sono gli autori della lettera, al fine di vendicarsi.
Il 28 agosto del 1979
È il 28 agosto dello stesso anno, Calogero finisce il turno di lavoro e ad aspettarlo a casa ci sono Rosa, e i suoi figli. Pranzano tutti assieme come d’abitudine, quando Calogero ha il turno di mattina. Dopo il pranzo si ritira in camera per riposare un po’. Nel pomeriggio di quello che sembra un giorno come tanti altri, accompagna la famiglia da alcuni parenti per prendere un caffè. “Passo a prendervi più tardi”, dice alla moglie salutandola. E così quando Rosa non lo vede arrivare si preoccupa e, con il passare delle ore, l’ansia diventa angoscia. Per prima cosa chiama i colleghi per sapere se per caso si fosse dovuto recare all’Ucciardone per qualche improvviso problema. Ma i colleghi le dicono che Calogero da quando ha finito il turno lì non c’è più andato, così Rosa capisce che qualcosa deve essere successo e avvisa subito i Carabinieri della zona. Scatta l’allarme, partono le ricerche. Viene cercato a Sferracavallo, in tutti i posti che abitualmente frequenta. Eppure niente, di lui non c’è traccia, fino alle sei del mattino successivo, quando una pattuglia di militari ritrova la sua auto, una Fiat 500, parcheggiata in via dei Nebrodi, all’incrocio con via Alcide De Gasperi: gli sportelli sono aperti.
Calogero da quel 28 agosto non farà mai più ritorno a casa, lasciando soli la sua giovane moglie e i suoi tre figli che non vedrà più crescere. Il suo corpo non venne ritrovato. Avrebbe compiuto 35 anni di lì a poco.
Vicenda giudiziaria
La Procura a quel punto apre un’inchiesta contro ignoti.
Dell’istruttoria se ne occupa il giudice Rocco Chinnici, che intuisce da sin subito che le cause della scomparsa di Calogero devono essere ricercate nell’ambito del suo lavoro. Si susseguono due anni di indagini serrate che non approdano a nulla. E così, il 5 marzo del 1981, il giudice Chinnici è costretto a chiudere il caso, scrivendo che: “La morte deve essere ricercata nei fatti strettamente collegati alla sua attività all’interno della casa circondariale. La riprova di ciò si ritrova nelle modalità di esecuzione del crimine, modalità tipicamente mafiose”.
L’attentato al giudice Chinnici, nel luglio del 1983, uccide anche ogni piccolo barlume di speranza di Rosa e dei suoi figli, di conoscere le verità.
I familiari di Calogero, dopo un primo momento di sconforto, non smettono di cercare la verità, e con loro anche gli agenti della direzione investigativa antimafia di Palermo e della Procura, che istituisce anche uno speciale pool sui delitti irrisolti.
Tre decenni dopo la sua scomparsa, un avviso di conclusione delle indagini viene notificato al capomafia di San Lorenzo, Salvatore Lo Piccolo, e all’ottantenne Salvatore Liga, anziano boss di Partanna - Mondello. Sono loro gli autori del macabro delitto. L’attività investigativa, coordinata dalla Dda di Palermo, coadiuvata anche dalla collaborazione di alcuni collaboratori di giustizia, permette di raccogliere elementi probatori nei confronti dei due boss di Cosa nostra. Consente di ricostruire cosa è accaduto quel 28 agosto del 1979: Calogero è stato attirato in un tranello, strangolato e poi bruciato dentro un forno. La sua uccisione è agghiacciante; in essa c’è racchiusa tutta la crudeltà di cui sono capaci gli uomini di Cosa nostra. Calogero è stato sequestrato, portato al cospetto di Cosa nostra e successivamente ucciso, per indicare chi fossero gli autori di quella missiva che oltraggiava il boss detenuto, Michele Micalizzi.
Quell’inchiesta della Dia svela l’ennesimo orrore di Cosa nostra: l’esistenza di un forno che si trova in un terreno nella zona residenziale di Città Giardini, nel quale sono stati bruciati corpi di innumerevoli persone, per non lasciare traccia alcuna.
Quel giorno dovevamo strangolare anche due ladruncoli dello Zen. Tutto andò bene. Dei ladri dello Zen non se ne parlò, perché era una cosa di routine. Invece, Di Bona era una cosa eclatante, venne portato da Liga, poi strangolato e bruciato su una graticola.
Memoria viva
Alla memoria di Calogero Di Bona è intitolata la Casa di Reclusione Ucciardone di Palermo ed è stato riconosciuto “Vittima del dovere”. Nel 2017 è stato insignito della medaglia d'oro al merito civile.
Da quel giorno è iniziata la nostra vita senza di lui e non è semplice imparare a conoscerlo attraverso fredde fotografie. Sarebbe stato bello poterlo avere accanto nei momenti importanti della vita, averlo accanto nel nostro primo giorno di scuola, o nei momenti in cui avrebbe voluto e dovuto regalarci carezza o rimproveri. Vederlo tornare a casa magari stanco ma orgoglioso del lavoro difficile che aveva scelto di fare.
Non è vero che il tempo cura tutti i mali, quando poi scopri d'aver già superato l'età che aveva tuo padre quel giorno, comprendi che esistono sofferenze che chi non le vive non può comprendere fino in fondo, chi le vive non ha bisogno di ulteriori racconti.
Non lo abbiamo visto invecchiare ma, io e la mia famiglia, abbiamo scelto di ascoltare, i racconti di chi lo ha conosciuto, di chi ha lavorato con lui per respirare quella sua stessa aria; un modo, come tanti altri, per provare a colmare quel vuoto attraverso l'esempio delle oneste intenzioni, le stesse che avrebbe sicuramente saputo trasmetterci se fosse stato qui.