Ponticelli è un quartiere della periferia orientale di Napoli. Da solo, conta più di 75 mila abitanti. Un ammasso indistinto di costruzioni popolari sorte dopo il terremoto del 1980. Il Lotto Zero - in realtà sarebbe il Lotto O, con la lettera e non con il numero - è uno dei rioni occupati da questa umanità varia, dove alla presenza asfissiante della camorra si contrappone l’impegno di associazioni, parrocchie, realtà di base e di tante persone perbene che non ci stanno a vivere sotto ostaggio dei clan e provano a fare la loro parte per cambiare le cose, per costruire alternative, opportunità, percorsi di riscatto. Perché qui il problema è proprio questo: costruire alternative. E per farlo, serve il concorso di tutti: la scuola, la società civile, le istituzioni. Sostituire alle armi della camorra quelle della bellezza, della cultura, dello sport. Non è facile, ma c’è chi ci prova e lo fa anche nel nome di chi, purtroppo, il tempo di costruirsi un’alternativa non lo ha avuto.
Ciro Colonna era un ragazzo perbene. Lui con la camorra non c’entrava niente. Ma quando vivi in un quartiere dove il confine tra la legalità e l’illegalità è così labile, può accadere che devi difenderti anche da chi non dovresti, devi dimostrare di non c’entrare nulla con la camorra, con chi spara e uccide senza pietà. Ciro con queste persone non aveva alcun legame. Ma viveva al Lotto Zero e quando è morto la sua famiglia, distrutta dal dolore, ha dovuto combattere anche per dimostrare che questo ragazzo era innocente.
Le foto che circolano in rete lo ritraggono con un volto sorridente sotto un leggero baffetto. Due occhi scuri, incorniciati da occhiali neri e un viso rassicurante, semplice, normale. Perché Ciro questo era: un ragazzo semplice. Viveva con mamma Adelaide, papà Enrico e Mary, la sorella più grande. Una grande passione per il Napoli che condivideva con suo padre. E con i suoi tre amici, bravi ragazzi come lui, nel quartiere li conoscevano come i quattro moschettieri. Frequentava le scuole serali per conseguire il diploma in ragioneria e sognava di trovare lavoro all’estero, forse di crescere lontano dalle difficoltà di quel quartiere in cui aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza e in cui faticava a intravedere un futuro. Aveva insomma i sogni, le speranze, i progetti di un qualsiasi diciannovenne che ama la vita e che sa di averla davanti tutta intera. Sogni, speranze, progetti che di certo avrebbe inseguito ostinatamente e che forse avrebbe realizzato se qualcuno non glielo avesse impedito un giorno di giugno del 2016.
Il 7 giugno del 2016
Era un martedì il 7 giugno del 2016. Lo scenario è quello di via Bartolo Longo, lo stradone dove sorge il Lotto Zero, a pochi passi da casa Colonna. Ciro era uscito di casa per incontrare un amico. Aveva deciso di aspettarlo giocando a biliardino in un circoletto lì vicino. Nulla di diverso da quanto abitualmente accadeva. Ma non quel giorno. Quel giorno avrebbe cambiato per sempre la vita della famiglia Colonna. E questo solo perché, in quello stesso circoletto, si trovava un certo Raffaele Cepparulo, uno degli esponenti di vertice del clan dei Barbudos del rione Sanità, in guerra da tempo con le altre famiglie del centro storico per il controllo del territorio. Raffaele - aria da duro, la barba lunga e i tatuaggi che erano il tratto distintivo di questo gruppo criminale - era finito in carcere non molto tempo prima. Una detenzione di pochi mesi la sua, interrotta dalla decorrenza dei termini. Ma il centro storico per lui non era una zona sicura e così aveva deciso di riparare proprio nella parte orientale della città, a Ponticelli. Quel 7 giugno, il destino incrociò le vite così diverse di questi due giovani.
Accadde tutto in pochi minuti. Nelle parole dei testimoni, il racconto dell’irruzione nel circolo di due persone armate. “Questa è una rapina”, avrebbero detto prima di aprire il fuoco contro l’obiettivo dell’agguato. Cepparulo fu freddato con cinque colpi di pistola. Nel trambusto generale, Ciro aveva tentato la fuga, ma gli erano caduti gli occhiali. Si era abbassato per recuperali. In quello stesso istante, uno dei killer mirò e fece fuoco. Un solo colpo, mortale. I sogni di Ciro si spensero in quel circoletto di periferia.
Sul corpo di Ciro fu disposta l’autopsia. La famiglia ha dovuto subire l’onta delle voci e delle domande che accompagnano queste tragedie: qualcosa dovrà pur c’entrare. E invece no, Ciro non c’entrava niente. La sua innocenza, gridata con grande dignità dalla sua famiglia, è apparsa sempre più chiara nei giorni successivi. Nel quartiere però in tantissimi ne erano stati sin da subito convinti. Ne erano convinte le oltre mille persone assiepate nella Chiesta di San Francesco e Santa Chiara il giorno dei funerali, l’11 giugno. Ne erano convinte le tantissime persone che, armate di fiaccole, percorsero le vie del quartiere la sera del 14 giugno. L’innocenza di Ciro è stata acclarata anche nelle sedi ufficiali, ma su chi fosse quel ragazzo, sulla sua innocenza e sull’assurdità di quella morte a Ponticelli in tanti non hanno mai avuto dubbi.
Vicenda giudiziaria
Le indagini hanno fatto luce sullo scenario criminali nel quale si è consumata la tragedia di questa morte innocente. L’obiettivo dell’agguato doveva essere Cepparulo. Era lui che, negli scontri interni al sistema per il controllo del territorio e degli affari criminali, doveva essere punito. Nel marzo del 2018, a poco meno di due anni dal secondo anniversario della morte di Ciro, arrivarono otto arresti emessi dal GIP su richiesta della DDA. Le ordinanze riguardavano mandanti, esecutori e fiancheggiatori, tutti nomi legati ai gruppi Rinaldi, Minichini e De Luca Bossa, accusati di omicidio aggravato da finalità mafiose e detenzione di armi da guerra.
Nel maggio del 2019, le pesantissime richieste del PM nella sua requisitoria: ergastolo per tutti. Per Ciro Rinaldi, ritenuto il mandante dell’omicidio di Cepparulo; per Michele Minichini e Antonio Rivieccio, ritenuti i due esecutori materiali. E poi ancora per Giulio Ceglie e per quattro donne: Anna De Luca Bossa, Vincenza Maione, Cira Cepollaro (madre di Minichini) e Luisa De Stefano. Nel mese di settembre delle stesso anno, la sentenza di primo grado, che accoglie in pieno le richieste della pubblica accusa.
Il 29 dicembre del 2020, la Corte d’Assise d’Appello di Napoli ha confermato gli ergastoli per Ciro Rinaldi, Michele Minichini, Antonio Rivieccio, Anna De Luca Bossa, Luisa De Stefano e Vincenza Maione. Venti anni per Cira Cepollaro. Assoluzione invece per Ceglie, il cui ruolo era apparso sin dall’inizio secondario.
Memoria viva
La morte di Ciro Colonna è stato un evento di rottura per Ponticelli. Sulla sua memoria, instancabilmente tenuta viva dalla famiglia, si è costruito un processo di riscatto che ha dato e sta dando frutti di speranza e di cambiamento. Il 9 luglio 2016, dopo appena un mese dalla morte di suo figlio, Enrico Colonna insieme alla sua famiglia, agli amici di Ciro, a un gruppo di volontari, agli attivisti di Libera e al movimento Un popolo in cammino, alle associazioni "Un'infanzia da vivere" di Caivano e "Francesco Paolillo" di Ponticelli, hanno ridato vita al campetto di calcio del Lotto O di Ponticelli, dedicandolo proprio alla memoria di Ciro. Tutto solo grazie a donazioni e al lavoro dei volontari. Il 14 marzo 2017, a meno di un anno dalla scomparsa di Ciro Colonna, c’è stata l’inaugurazione ufficiale di un’area a lui dedicata: giostre, aiuole e il campo di calcio. Successivamente, il centro polifunzionale di Ponticelli, spazio di aggregazione del quartiere, è stato intitolato a Ciro. La mamma Adelaide e la sorella Mary sono state testimoni della promessa che l’intero quartiere si è impegnato nella riqualificazione del territorio.
A Ciro è intitolato il Presidio di Libera a Macerata, inaugurato nel dicembre del 2020. Nel suo nome, altri giovani provano a costruire dignità e cambiamento.
Quando uccisero Ciro, oltre all’uccisione materiale, quella con la pistola, ci hanno ucciso anche con gli articoli, con la diffamazione. Si supponeva che Ciro conoscesse qualcosa, che fosse lì per un qualche motivo. Ma Ciro era lì semplicemente perché aspettava un amico. Dopo la morte di Ciro, gran parte del quartiere si è rimboccata le maniche per cambiare un po’ le cose. Così è stato riqualificato il campo di calcio, poco distante da dove è accaduto l’omicidio. Dopo la sua morte, io ho sempre chiamato Ciro “Il sorriso del sole”, perché con la sua morte mio fratello ha lasciato uno spiraglio di luce per questo quartiere. Quello che è successo a me non deve capitare più.