Pietra su pietra, blocco su blocco, incastro dopo incastro, il mestiere di costruire i muri a secco è antico quanto l’uomo. Gli studiosi lo considerano uno dei primi manufatti realizzati dall’essere umano, per rispondere ad un’istintiva esigenza di delimitare gli spazi. Che fossero costruiti per ripararsi o per recintare o confinare, questi muri alzati senza l’utilizzo di leganti, ancora oggi caratteristici di tanti paesaggi rurali italiani, necessitano di fatica, maestria, impegno, al punto da essere stati inseriti nel patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Ed è qui, davanti ad uno di questi muretti in costruzione nelle campagne di Piana degli Albanesi, che si consuma l’ultimo atto della vita di Giorgio Pecoraro.
All’epoca dei fatti, questo paesone a una ventina di chilometri da Palermo si chiamava ancora Piana dei Greci. In realtà, il toponimo, scomparso definitivamente nel 1941 e sostituito da quello più corretto di Piana degli Albanesi, era frutto di un errore assai diffuso in Sicilia e legato al rito religioso greco-cattolico praticato dagli abitanti, che erano appunto albanesi e non greci. Piana è, difatti, il più importante centro degli albanesi di Sicilia, dove da secoli risiede la più popolosa comunità albanese d'Italia, profondamente legata alle proprie origini. Qui ancora si conservano tradizioni, usi, costumi e persino un peculiare bilinguismo.
Ma Piana ha anche altre peculiarità, prima tra tutte quella di aver dato un contributo assai significativo all’esperienza dei Fasci siciliani dei lavoratori, quel movimento di ispirazione democratica e socialista che, tra il 1889 e il 1894, si diffuse con forza tra contadini, braccianti agricoli, minatori e operai. Ecco, l’impegno di Giorgio Pecoraro in questa battaglia a difesa della dignità del lavoro e per l’affermazione dei valori del socialismo è ancora precedente ed è profondamente legato a quello di suo cognato, Mariano Barbato. Le loro storie, le loro vicende umane e politiche, infine il loro stesso destino, sono profondamente legati.
È per questo che non si può raccontare la storia di Giorgio se non si parte da quella di Mariano. E da quella del padre di quest’ultimo, Giuseppe, da cui forse Mariano aveva ereditato questa vocazione alla battaglia politica e sindacale, divenuta una vera e propria tradizione di famiglia. Giuseppe, infatti, era molto attivo nel sindacato e nel partito socialista. Ma ancora di più lo sarebbe stato un cugino di Mariano, Nicola Barbato, tra le massime figure del socialismo siciliano tra il secondo Ottocento e i primi del Novecento. Di Nicola, Mariano era diventato con il tempo il vero e proprio braccio destro, condividendo il suo impegno e la sua militanza, tra gli altri, appunto con suo cognato Giorgio, protagonista con lui di tante battaglie.
Battaglie che costarono caro a Mariano. A cominciare da quell’arresto del 1882 e da almeno due processi politici, cui fu sottoposto nel 1894 e nel 1898. Dal primo, che dovette affrontare con l’accusa di aver partecipato ai Fasci dei lavoratori insieme a suo padre, uscì assolto. Non fu così per il secondo, che si chiuse con una condanna in appello per aver preso parte alla Federazione socialista dei lavoratori di Piana, dedita, secondo l’accusa, alla disobbedienza e all’odio di classe. Accuse che Mariano affrontò sempre a testa alta, col pieno sostegno di suo cognato e nel pieno convincimento di essere dalla parte giusta.
Il 28 giugno del 1914, a Piana degli Albanesi si sarebbe votato. Il clima, nelle settimane precedenti, si era ancor più infiammato. Era il culmine di un processo di scontro politico che era andato acuendosi da quando, nel 1910, Nicola Barbato, emigrato tre anni prima negli Stati Uniti, era stato richiamato dal circolo socialista fondato da Mariano e aveva deciso di rientrare a Piana. Quel ritorno era il lasciapassare definitivo per una vittoria schiacciante dei socialisti alle elezioni amministrative. Lo sapevano tutti, compresi avversari politici e mafiosi. Ed è in questo clima che si consuma la tragedia che vede protagonisti Giorgio e Mariano. Proprio davanti a quel muretto a secco che stavano costruendo nelle campagne a pochi chilometri dal centro del paese
20 maggio 1914
Erano le 7.30 del 20 maggio 1914. Giorgio e Mariano, di buon mattino, si erano recati in un fondo di contrada Cardona e avevano cominciato a lavorare alla costruzione del muro. Con loro c’era un altro operario, Vito Ciulla. L’attenzione dei tre fu improvvisamente richiamata da altrettante persone che, a volto scoperto, gli si avvicinarono, li chiamarono per nome e, un attimo dopo, esplosero diversi colpi di fucile. Per Giorgio e Mariano, rispettivamente 60 e 66 anni, non ci fu scampo. I due morirono sul colpo sotto il fuoco dei killer. Ciulla invece riuscì a scamparla, uscendo illeso dall’agguato. Fu lui, unico testimone del duplice omicidio, a raccontare agli inquirenti che gli assassini, dopo l’esecuzione, si allontanarono “a passo regolare attraverso la trazzera che porta sotto la montagna La Pizzuta”.
Verso le ore 7,30 del 20 andante in contrada Cardona di questo territorio, mentre Barbato Mariano fu Giuseppe, d'anni 66, possidente pregiudicato, Percoraro Giorgio fu Nicolò, d'anni 60 contadino e Ciulla Vito fu Crisostomo d'anni 54, muri fabbro, tutti da qui, erano intenti alla costruzione di un muro a secco in un fondo del primo, furono avvicinati improvvisamente da tre sconosciuti i quali, dopo averli salutati, esplosero contro di loro simultaneamente vari colpi di fucile, due dei quali rendevano all'istante cadavere il Barbato e il Pecoraro, restando miracolosamente incolume il terzo operaio nella persona del Ciulla suddetto.
Vicenda giudiziaria
Raccolte le prime testimonianze e ascoltati i familiari delle vittime, gli inquirenti sembrarono propendere verso l’ipotesi di un omicidio legato proprio al clima di odio politico che si era creato in paese alla vigilia delle elezioni amministrative tra il partito socialista, nel quale Mariano Barbato e Giorgio Pecoraro militavano a sostegno della candidatura dell’avvocato Giuseppe Camalò, e il partito conservatore, schierato invece con l’avvocato Puleio. In particolare - scrisse il delegato di PS Andrea Cotugno in un rapporto del 25 maggio - il duplice omicidio sarebbe stato direttamente legato ad un episodio risalente al 17 maggio, quando, nel corso di un comizio dei socialisti a San Giuseppe Jato, Mariano avrebbe affrontato politici e mafiosi al grido di «Abbasso la camorra, chi non è con noi è un vigliacco».
Ma fu proprio Nicola Barbato, in una deposizione del 26 maggio, a rigettare con fermezza questa ipotesi:
Escludo nella maniera più assoluta che la soppressione di Barbato Mariano e del cognato possa avere relazione in rapporto di causa ed effetto con l’ultimo comizio di propaganda tenuto in San Giuseppe Jato il 17 corrente.
Il leader socialista richiamò invece l’attenzione degli investigatori su un presunto intreccio perverso di interessi politico-mafiosi, indicando nel sindaco di Piana, Paolo Sirchia, e negli assessori Luca Sciadà e Saverio Fusco persone «capaci, per la sete di dominio, di andare a suggestionare i delinquenti contro di noi».
La pista indicata da Nicola Barbato però non fu battuta e l’indagine fu archiviata. Fu solo nel 1926, a 12 anni di distanza dall’assassinio dei due attivisti socialisti, che le indagini poterono giungere ad una svolta. Accadde quando, forse tranquillizzato dall’arresto del capomafia di Piana Francesco Cuccia, il figlio di Giorgio Pecoraro, Nicolò, raccontò di uno scontro violento tra Antonino Cuccia e suo padre, per ragioni futili legate al fatto che Giorgio avrebbe calpestato il seminato di Cuccia per raccogliere della verdura. Una lite avvenuta un mese prima dell’agguato e finita con qualche schiaffo e qualche minaccia. Al racconto di Nicolò Pecoraro fece seguito quello di Giuseppe Barbato, figlio di Mariano, che riferì come, qualche giorno dopo le parole contro la mafia pronunciate da suo padre in un comizio, un altro Cuccia, Giorgio, fratello di Antonino, lo affrontò nella piazza di Piana dei Greci. Mariano però non si lasciò intimidire e, nel famoso comizio di San Giuseppe Jato, rilanciò le sue accuse con ancora più violenza. «Come già ha fatto il Pecoraro Nicolò nell’indicare ora il mandante del delitto - si legge nelle fonti - così il Barbato Giuseppe attribuisce l’omicidio del padre alla maffia capitanata dal Francesco Cuccia e Giorgio Cuccia, fratelli, alla cui prepotenza il Barbato non intendeva sottostare». Mafia e politica dunque davvero si sarebbero intrecciate nel determinare il destino di Mariano e Giorgio.
Sulla base di queste nuove dichiarazioni, Francesco, Antonino e Giorgio Cuccia furono accusati di essere i mandanti del duplice omicidio. Un’accusa dalla quale, però, uscirono assolti per insufficienza di prove, con una sentenza della Sezione d’Accusa del Tribunale di Palermo pronunciata il 1° maggio del 1928. Nessuna possibilità di procedere neanche contro gli esecutori materiali del delitto, individuati da Giuseppe Barbato in Giorgio Cuccia e Giovan Battista Sammarco, entrambi intanto deceduti. I nomi dei killer erano stati confidati a Giuseppe da Vito Ciulla, l’operaio presente al momento dell’assassinio, in punto di morte. La morte violenta di Mariano Barbato e Giorgio Pecoraro è rimasta dunque impunita.
Memoria viva
La loro memoria, tuttavia, non è andata dispersa. La storia di questi due lavoratori, sindacalisti e attivisti politici, uccisi per il loro impegno e la loro determinazione, è stata raccontata nel libro di Francesco Petrotta “Indagine sull’assassinio di Mariano Barbato, socialista”, che ripercorre le tappe di questa drammatica vicenda ricostruendone i dettagli. È contenuta inoltre, insieme a quella di tanti altri sindacalisti uccisi dalla mafia, nel volume “Terre e libertà. Storie di sindacalisti uccisi dalle mafie” realizzato grazie all’impegno dello SPI CGIL.
Prima ancora dello Stato, a opporsi alla mafia e all’intreccio tra potere politico, potere imprenditoriale e criminalità organizzata sono stati tanti giovani sindacalisti, attivisti, braccianti e contadini. Una lotta lunga più di centocinquant’anni, cominciata nella prima metà dell’Ottocento.