Nel linguaggio comune, fato e destino sono due termini interscambiabili. Ma in realtà, a coglierne il senso più profondo, queste due parole non indicano esattamente la stessa cosa. Perché il destino è nelle mani stesse dell’uomo, che può dunque esserne artefice. Il fato no, quello è immutabile e, per quanto appaia casuale, guida gli eventi seguendo un ordine che non si può modificare. Concetti filosofici che però, a ben vedere, sono ancorati nella realtà delle vicende umane.
Vincenzo era originario di Pollena Trocchia, area vesuviana della provincia di Napoli. Era cresciuto con una grande passione per i motori, soprattutto per le moto. Ci aveva cominciato a lavorare quando ancora era un bambino. A otto anni appena già ci metteva le mani. Aveva capito che quella poteva essere la sua strada. Un lavoro impegnativo e umile, ma che amava profondamente: «Non importa il lavoro che fai né quanto ti pagano, l’importante è che ti piaccia davvero».
Era questo Vincenzo. Un uomo semplice, umile. Un lavoratore onesto e riservato. Una persona perbene. La sua vita scorreva tranquilla, divisa com’era tra il lavoro nell’officina meccanica che aveva aperto a San Giorgio Cremano, poco meno di dieci chilometri dalla sua città di origine, e la sua famiglia: la moglie Teresa e i tre figli frutto del loro amore. La più grande, Mary, cresciuta con la passione del giornalismo, e poi i due maschi, Luigi e Ciro. Il suo viso sorridente nelle foto che lo ritraggono, da solo o accanto alla sua famiglia, trasferisce esattamente quest’immagine di semplicità.
Il 13 gennaio del 2011
Ma la storia tragica che lo vede protagonista, purtroppo, è tutt’altro che semplice. È la storia assurda di una fato beffardo, di una morte ingiusta e di una giustizia mai ottenuta.
Il 13 gennaio del 2011 è un giorno come tanti. Da poco Vincenzo si è lasciato alle spalle il periodo delle festività natalizie e l’attività nella sua moto-officina di via San Giorgio Vecchio è ripresa a pieno regime. Un lavoro di routine, fatto di clienti affezionati e fedeli, di piccoli interventi di manutenzione, filtri, bulloni e cambi d’olio. Ecco, intorno alle 19.00 di questo 13 gennaio 2011, ormai quasi finito, Vincenzo sta facendo esattamente questo: cambiare l’olio a un motorino. In via San Giorgio vecchio, accanto all’officina di Vincenzo, c’è però un circolo ricreativo gestito da Luigi Formicola, un pregiudicato con alle spalle una condanna per estorsione risalente a 11 anni prima. Quando arrivano davanti al circolo, pistola alla mano, i due uomini a bordo di una moto e con il volto completamente coperto da un casco integrale, cercano proprio lui, Luigi. Quando l’uomo si accorge di cosa sta succedendo tenta di scappare. Fa pochi metri, fino all’officina di Vincenzo. I killer sparano all’impazzata, forse una quindicina di colpi. Colpiscono il loro obiettivo, che si accascia poco lontano dall’ingresso dell’officina. Ma pochi metri dietro di lui, all’interno dell’officina, si accascia anche Vincenzo, colpito al cuore da una pallottola. Un solo colpo, fatale. Muore così Vincenzo Liguori, a 57 anni.
Ed è qui che il fato aggiunge un altro drammatico tassello a questa storia. Mary, crescendo, ha coltivato la sua passione per il giornalismo. Una passione che intanto ha dato i suoi frutti. Non ultimo, il lavoro di corrispondente dall’area vesuviana per il quotidiano Il Mattino di Napoli. Si occupa per lo più di nera e giudiziaria. E dunque, quel 13 gennaio la prima telefonata che i suoi colleghi fanno è proprio a lei. Le chiedono di recarsi sul posto per raccogliere notizie. Mary si rende conto che l’omicidio di cui le stanno parlando è avvenuto nella strada poco lontano dal centro dove suo padre ha l’officina. Si mette immediatamente al lavoro e si dirige sul posto. Quando in redazione si rendono conto che uno dei due morti è suo padre, i colleghi non fanno in tempo ad avvertirla. Mary è già lì e ha visto suo padre riverso sul pavimento.
Vicenda giudiziaria
Le indagini dei Carabinieri di Torre Annunziata partono immediatamente. Sono due le piste: Vincenzo potrebbe essere morto per errore o forse essere stato ammazzato dai killer per non lasciare testimoni. La svolta arriva nel dicembre del 2012, quando Giovanni Gallo, già noto alle forze dell’ordine per reati di droga, si autoaccusa di aver preso parte al delitto, sebbene solo con il ruolo di “specchiettista”. A lui, cioè, era stato affidato il compito di segnalare ai killer la presenza e la posizione della vittima. L’uomo esclude categoricamente il coinvolgimento di Vincenzo: "Nessuno voleva ucciderlo il meccanico, là è capitata una disgrazia”. Gallo chiama in causa Vincenzo Troia e i fratelli Andrea e Giuseppe Attanasio. Troia è in lotta con il clan Abbate e dunque l’omicidio di Formicola sarebbe maturato proprio nel contesto di una guerra di camorra, forse per punire l’obiettivo dei killer per il suo ruolo nella decisione del socio in affari di denunciare Troia per estorsione, facendolo condannare.
Nell’ottobre del 2014 la prima sentenza, che accoglie le richieste del PM di condannare Troia all’ergastolo come mandante e infligge la pena di 12 anni di reclusione allo stesso Gallo. I fratelli Attanasio, cognati di Troia, dovranno scontare l’ergastolo per un altro omicidio, quello di Agostino Ascione, avvenuto nel gennaio del 2009.
L’ergastolo e l’isolamento diurno non ricacceranno indietro neanche una delle lacrime che abbiamo dovuto versare, né sono balsamo per una ferita che non si rimarginerà mai, ma rappresentano l’unico spiraglio di luce nel buio che ci ha stravolto la vita.
Ma quello che accadrà nei successivi due gradi di giudizio sarà l’ennesima doccia fredda. Nel febbraio del 2016 la Corte d’Assise d’Appello di Napoli assolve Troia, escludendo qualsiasi aggravante mafiosa. Sentenza di assoluzione piena che viene confermata l’anno successivo, il 17 febbraio del 2017, anche dalla Corte di Cassazione. Unico imputato Vincenzo Troia, assolto definitivamente. Quella morte innocente non ha colpevoli.
E questo nonostante, sin dai giorni successivi alla morte di Vincenzo, la sua famiglia avesse chiesto di ottenere giustizia e la collaborazione di chi aveva visto qualcosa. Una speranza vana sino a ora. Eppure, nello stesso articolo, c’è anche un atto d’amore, una scelta di speranza nel nome di suo padre.
Scrivo questo articolo perché me lo ha chiesto mia madre che (…) spera che un appello possa smuovere le coscienze di testimoni che hanno visto il marito morire da innocente. Faccio mio quest’appello e non da giornalista, ma da figlia. È morto lavorando, mio padre. Era un uomo onesto, che amava vivere in disparte, stare lontano dai riflettori. Oggi si ritrova sui giornali, vittima inconsapevole di una violenza inaudita e noi non possiamo che sperare che un giorno si trovino i suoi assassini, che la giustizia possa prevalere sull’omertà.
Spesso, dinanzi alla prospettiva di andare via da qui, mi sono risposta: che andassero via gli altri, quelli violenti, quelli che hanno reso questa città invivibile! Perché dovrei essere io ad abbandonare il campo? Io faccio la giornalista anche per cercare di cambiare le cose, per migliorarle. Oggi ci credo un po’ meno, mi chiedo se vale ancora la pena lottare. Ma un secondo dopo mi rispondo che sì, vale la pena. Devo farlo per mio padre, per mio marito che il suo papà l’ha perso appena un anno fa, per i miei fratelli. E per mia madre che, tramite me, vi dice: «Chi ha visto, parli».
Memoria viva
Nel nome di Vincenzo, va avanti la battaglia di questa famiglia colpita da un dolore tragico e assurdo. Sono varie le intitolazioni di luoghi e iniziative alla memoria di quest’uomo onesto e perbene, per la cui memoria, in Campania, si spendono i volontari di Libera, la Fondazione Pol.i.s., amici e appassionati, come lui, di moto. E' da anni, infatti, che in sua memoria si organizza un motoraduno, Memorial Vincenzo Liguori, il rombo della memoria per non dimenticare Vincenzo e con lui, le tante vittime innocenti della camorra, della criminalità.
Il fato forse non si può cambiare. Ma, con l’impegno di tutti, il destino di chi vive in queste terre forse sì.