Francesco era nato il 20 agosto del 1941 a Papanice, una piccola frazione del comune di Crotone. A 18 anni, la scelta di arruolarsi nell’Arma, maturata forse anche per tentare di allontanarsi da un amore difficile, per quanto intenso. Eugenia, la donna di cui si era innamorato e da cui era amato, aveva il suo stesso cognome. E non per una casualità, ma perché figlia del fratello del papà di Francesco. Insomma, erano cugini di primo grado. Uno di quegli amori difficili da far digerire. Ma i tentativi di stare lontani, che portarono Francesco dapprima in Sardegna e poi nelle Marche, furono inutili. A vincere fu quel sentimento forte, di fronte al quale, alla fine, dovettero arrendersi tutti. Così, nel 1973, Francesco ed Eugenia si sposano. Lui 33 anni, lei 29. Un anno dopo, arriva Alfredo, il primo figlio, che nasce a Padova, dove il fratello di Eugenia studia medicina. I rischi legati al frutto di quella unione tra consanguinei consiglia un parto controllato. La soluzione di Padova appare la migliore.
Il lavoro in Calabria
La morte improvvisa del fratello di Eugenia, anch’egli di nome Alfredo, induce però la famiglia a fare rientro in Calabria. Eugenia corre a Cutro, per stare vicina ai suoi genitori in un momento così difficile. Francesco si stabilisce invece nella base di Vibo Valentia e tiene con sé il piccolo Alfredo. Nel 1975 nasce anche la secondogenita, Caterina, di solo un anno più piccola del maggiore Alfredo. Sono anni spensierati per questo bambino, che cresce tra divise, elicotteri, operazioni militari. Nei ricordi di Alfredo c’è l’immagine ammirata di un padre tranquillo ma autorevole, paziente ma determinato.
Tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, essere un elicotterista dei Carabinieri in Calabria significava inevitabilmente scontrarsi con la dura realtà dei sequestri di persona. Sono gli anni dell’Anonima Sequestri calabrese, nei quali le famiglie di ‘ndrangheta intensificano il ricorso a uno strumento, quello appunto del sequestro, per accumulare capitali enormi, frutto del riscatto pagato dai familiari per ottenere il rilascio dei loro cari. Soldi poi utilizzati per investimenti e affari soprattutto nel settore edilizio o nel traffico di droga. L’Aspromonte, l’impervio e impenetrabile massiccio montuoso dell’Appennino calabro, diventa ben presto il cuore di questo fenomeno, prestandosi perfettamente a ospitare la prigionia delle persone rapite.
Ed è soprattutto in quest’area che Francesco Pantaleone Borrelli, maresciallo capo dei Carabinieri in servizio presso l’ottavo Nucleo elicotteri di Vibo Valentia, pilotava il suo velivolo. Un lavoro intenso e delicato. E rischioso. Come quando Borrelli e i suoi colleghi, nel corso di un’operazione, furono raggiunti da alcuni colpi d’arma da fuoco che fecero precipitare l’elicottero. Si salvarono tutti solo grazie alla folta vegetazione che attutì le conseguenze della caduta.
L’inizio della scuola elementare per il piccolo Alfredo segna il ritorno dell’intera famiglia a Cutro. Francesco trascorre i giorni di lavoro a Vibo, per tornare dai suoi cari nei giorni di riposo. Accadde così anche nei giorni di festa di quell’ultimo scorcio del 1982. Francesco resta in servizio anche a Natale e Capodanno. Poi si mette in ferie e rientra a Cutro. Ed è proprio in questi giorni che si consuma la tragedia.
Mentre gli altri bambini giocavano con gli elicotterini, io giocavo con quelli veri. Ricordo quel periodo come l’età dell’oro perché c’era un clima intenso, erano gli anni dei sequestri con gli elicotteri che sorvolavano l’Aspromonte, un lavoro durissimo. Gli elicotteristi erano fondamentali all’epoca, per la lotta alla criminalità. A Vibo c’erano anche le unità cinofile e molti altri bambini che stavano nella base, figli di colleghi di mio padre. Era per me un luogo di uno straordinario fascino.
Il 13 gennaio del 1982
Quel 13 gennaio 1982 era un mercoledì. Francesco era nella piazza principale di Cutro a scambiare due chiacchiere con gli amici. Tutto accade in pochi minuti. Francesco vede sopraggiungere su un lato della piazza una macchina, al cui interno nota chiaramente dei fucili. È un Carabiniere e ha il fiuto investigativo. D’istinto si volta dal lato opposto e vede, seduto sulle scale, il boss Antonio Dragone. Capisce immediatamente che sta per scoppiare l’inferno. Comincia a urlare per disperdere le persone, mentre corre incontro alla macchina con i killer, nell’estremo tentativo di evitare una carneficina. Ma non serve a nulla. Dall’auto partono i colpi. Alcuni di questi colpiscono alle gambe il maresciallo Borrelli, che cade al suolo. Dragone riesce a salvarsi. E in salvo, ben nascosto dietro la saracinesca abbassata del bar della piazza, si mette anche il Comandante dei Carabinieri di Cutro, che poi verrà per questo degradato. Di Francesco si accorge solo un giovane, che lo raccoglie, lo carica su un furgone e lo porta di corsa all’ospedale di Crotone. Ma il maresciallo morirà poco dopo, per dissanguamento. Aveva 41 anni.
Fu un dolore insopportabile per Eugenia. Al momento della morte di Francesco, Eugenia aveva solo 38 anni. I suoi figli invece 7 e 6. Un dolore dal quale tentò di proteggere i suoi figli, ai quali impedì anche la partecipazione ai funerali di Stato.
Nel Natale del 1982, l’allora Presidente della Repubblica volle esprimere affetto ad Alfredo e Caterina, inviando loro dei doni e una lettera: “in questi giorni in cui più vivi si sentono gli affetti familiari - scrisse - desidero esservi vicino con animo paterno, nella speranza di alleviarvi almeno un poco il dolore per la scomparsa del vostro caro papà. Voglio ripetervi la gratitudine della Nazione per il suo sacrificio e, con tale sentimento, offrirvi questo dono, augurandomi che vi giunga come testimonianza del mio sincero particolare affetto. Vostro, Sandro Pertini”.
Ho così pochi ricordi ma belli, che quando penso a quel violento dolore ho la sensazione di aver
vissuto una vita che non era la mia. Perché la vita che mi doveva appartenere era più bella, bella come il viso di mio padre.
Vicenda giudiziaria
I colpevoli della morte di Francesco Borrelli non sono mai stati individuati.
Memoria viva
Alla memoria di Francesco è dedicato il presidio del IV Municipio di Libera a Roma.
A Francesco Borrelli è stata conferita una medaglia d’oro al valor civile (non militare, nonostante fosse un carabiniere, perché non aveva sparato nessun colpo di arma da fuoco).
Da subito capii che erano stati dei mafiosi a ucciderlo. Ma quello che è successo realmente l’ho scoperto solo nel ’94, quando mia sorella, dopo aver ottenuto il riconoscimento di vittime di mafia, fu chiamata a lavorare al Tribunale di Catanzaro, e vide gli atti processuali che riguardavano il caso di nostro padre. Restammo impressionati nel leggere la relazione dei carabinieri su quanto avvenne quel giorno. E io leggendoqueste cose pensai quasi con rabbia: Ma perché non ti sei fermato? Perché sei andato lì? Capii in quel momento che non potevo tirarmi indietro, non potevo essere completo se non avessi messo al servizio del mio impegno anche la mia memoria. E da quel momento non mi sono più fermato. In quell’istante ho capito, ho scongelato il mio dolore, ho compreso intimamente che non puoi far finta che non ci sia, non puoi essere così presuntuoso da pensare di poterlo contenere. Lo si può guardare e raccontare quanto è pesante, ma non lo si può eliminare.