Il senso del dovere è un atto di coraggio quotidiano. Lo è a maggior ragione quando hai la sensazione che tutto intorno a te ti induca a fare scelte diverse, a voltare la testa dall’altro lato, a far finta di non vedere. È in quel momento, nella concretezza di situazioni che ti pongono di fronte all’obbligo morale di scegliere da che parte stare, che viene fuori l’essenza della libertà e della dignità dell’uomo. Il senso del dovere, appunto. Ma vale sempre la pena?
Giuseppe Montalto deve essersi posto spesso nella propria vita questa domanda. Una domanda difficile, perché, quando la posta in gioco è molto alta, trovare una risposta adeguata finisce col mettere in discussione dal profondo la propria stessa vita. Eppure la vita di Giuseppe sembra essa stessa una risposta a questa domanda. Lo sono le sue scelte, il suo coraggio, il suo altissimo senso del dovere.
Era trapanese Giuseppe. Nella città dei due mari era nato il 14 maggio del 1965 e qui era cresciuto, scegliendo ben presto di arruolarsi nel corpo della Polizia Penitenziaria. Era diventato Agente scelto e, ancora molto giovane, aveva iniziato la sua carriera nella Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, il carcere de Le Vallette, dove aveva lavorato per anni prima del ritorno nella sua Sicilia.
Il trasferimento a Palermo
A Palermo Giuseppe Montalto arriva nel 1993. È in quest’anno, poco dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio e mentre ancora la mafia siciliana macchia di sangue le strade di mezza Italia, che viene trasferito all’Ucciardone. Non è un carcere qualunque quello di Palermo. E non è una sezione qualunque quella a cui viene destinato Giuseppe: sezione di massima sicurezza. È l’ala della casa di reclusione in cui sono ristretti i boss più spietati, quelli detenuti al regime duro del 41 bis. Gente potente e pericolosa, capace di controllare affari e delitti anche dall’interno di una cella. Per loro, l’ordinamento penitenziario prevede condizioni durissime di detenzione: isolamento, colloqui limitati, visto di controllo della posta in uscita e in entrata, sorveglianza costante da parte di agenti scelti e con pochissimi contatti con i colleghi. Dopo la morte di Giovanni Falcone, il regime del carcere duro fu esteso anche ai mafiosi. Fu la risposta dello Stato all’attentato di Capaci e forse, al contempo, tra le ragioni che determinarono le stragi successive. Un affronto insopportabile per Cosa nostra.
Ecco, era con questa gente che Giuseppe Montalto aveva a che fare. Ed era lì, tra le mura dell’Ucciardone, che questo giovane agente scelto si confrontava, ogni giorno, col suo senso del dovere. Eppure Giuseppe non si era lasciato condizionare dalla durezza di quel lavoro. Era un uomo generoso e buono, capace di gesti di comprensione verso i detenuti, anche della peggior specie. Buono ma intransigente, incapace di restare indifferente. Perché lì, tra quelle mura, il suo senso del dovere incontrava un altro valore fondamentale, quello della giustizia: fare sempre la cosa giusta.
E se è vero che indifferenza e pigrizia morale non possono andare d’accordo con il senso del dovere e della giustizia, quel giorno di aprile del 1995 Giuseppe non dovette avere dubbi quando si accorse che tra i detenuti all’ora d’aria c’erano dei movimenti strani. Sì perché, nonostante il carcere duro, quella di passarsi informazioni attraverso bigliettini di carta e pizzini era evidentemente un’abitudine ben collaudata. Accadde così anche quel giorno. Ma Giuseppe non si voltò dall’altra parte e mentre i suoi colleghi perquisivano Mariano Agate, capo della mafia di Mazara, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e Raffaele Ganci, tutti e tre boss palermitani, lui si accorse che quest’ultimo aveva lasciato scivolare un foglietto, forse indirizzato al catanese Nitto Santapaola. Lo raccolse senza pensarci su due volte, lo consegnò al suo superiore e denunciò tutto. Fu la sua condanna a morte.
Secondo i giornali dell’epoca, ai funerali di Stato celebrati qualche giorno dopo Natale nella piccola chiesa di Piatratagliata c’erano più di mille persone. Tra loro, in lacrime, tanti colleghi. Accanto alla bara, la giovane vedova di Giuseppe, Liliana.
Ricordare significa non far morire un’altra volta la persona che è stata uccisa. È importante fare gruppo e combattere la mafia, ma la mafia - dice - dobbiamo saperla combattere anche in modo individuale. È per questo che invito i giovani ad avere sempre voglia di fare delle cose buone, belle e importanti.
Il 23 dicembre del 1995
La sera del 23 dicembre 1995 Giuseppe era appena fuori dalla casa di suo suocero, in località Palma di Trapani. Era sceso dalla sua Fiat Tipo targata Torino per portare dentro una bombola del gas. Quella macchina era stata segnalata da una gola profonda interna alla motorizzazione. Con Giuseppe, sul sedile del passeggero, sua moglie Liliana. Dietro, nel seggiolino, Federica, la loro prima figlia, di appena 10 mesi. In realtà in quell’auto quella sera erano in quattro, ma ancora nessuno lo sapeva. C’era anche Ilenia nel grembo di Liliana. Sarebbe nata orfana. Contro Giuseppe furono esplosi alcuni colpi di fucile a canne mozze. Nessuno scampo per lui, che spirò tra le braccia di sua moglie.
Federica non ha memoria di quel giovane trentenne ucciso davanti a lei quando lei di anni non ne aveva ancora nemmeno uno. Ma 15 anni dopo quella tragica sera al padre ha voluto rivolgere una lettera.
Non mi ricordo il momento in cui hanno detto che non c’eri più e sono cresciuta con il vuoto della tua assenza. Tante volte mi sono chiesta perché ti hanno portato via da me e a questa domanda non ho mai saputo rispondere. Ogni volta che ti penso, ti immagino felice e sorridente, come nelle poche foto che abbiamo insieme. Per quello che sei stato, ti voglio bene e sei il mio eroe.
Vicenda giudiziaria
Anni dopo, il movente del pizzino fu confermato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Milazzo. Quel delitto fu deciso nel corso di vari summit di mafia in una villetta di Salemi, alla presenza, tra gli altri, di Matteo Messina Denaro. L’ordine di morte era arrivato dai Madonia, proprio dall’interno dell’Ucciardone: «Ninuccio manda a dire che vuole fatta una cortesia, vuole eliminata una guardia carceraria che "si comporta male”». Doveva essere un avvertimento, un gesto dimostrativo contro le restrizioni del carcere duro. Si doveva uccidere una guardia carceraria per «fare un regalo a qualche amico che è in carcere», rivelò il pentito Giovanni Brusca in Corte di Assise. «Il regalo di Natale ai detenuti, così si fanno il Natale più allegro», raccontarono al processo i pentiti.
Giuseppe è stato un “eroe silenzioso di questa terra”, dissero nella loro requisitoria i pm Ignazio De Francisci e Andrea Tarondo. Un omicidio da inserire nel contesto della strategia stragista di Cosa nostra. Forse, l’ultimo atto di quella stagione di sangue, l’ultima sfida allo Stato cominciata tre anni prima a Capaci e in via D’Amelio.
A sparare fu Vito Mazzara, capo famiglia di Valderice, un professionista che frequentava i campionati nazionali di tiro a volo. Fu condannato all’ergastolo come esecutore materiale del delitto. Con lui, secondo gli inquirenti, c'era anche un altro killer, rimasto però senza volto. L’arma, il fucile a canne mozze, sarebbe la stessa utilizzata da Mazzara per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno. Il processo ha individuato e condannato all’ergastolo anche i mandanti Matteo Messina Denaro, il capo mafia di Trapani ancora latitante, Vincenzo Virga, e il palermitano Nicolò Di Trapani, boss di Resuttana.
Memoria viva
Nell’ottobre del 2011, a Giuseppe Montalo è stata intitolata la Cosa circondariale di Alba. A lui sono intitolate anche le caserme degli agenti dei reparti di Palermo Ucciardone e Agrigento. La Provincia regionale di Trapani dal 2007 ha istituito la borsa di studio Giuseppe Montalto assegnata ogni anno a parenti di vittime della mafia o di incidenti sul lavoro.
Il 19 novembre del 1997 gli è stata conferita la Medaglia d’oro al merito civile alla memoria per avere assolto “il proprio compito con fermezza, abnegazione e alto senso del dovere. Proditoriamente fatto segno a colpi d'arma da fuoco in un vile attentato tesogli con efferata ferocia da appartenenti all'organizzazione criminosa, sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle istituzioni”.