Il rombo dei motori lo aveva affascinato da sempre, sin da quando era ancora un ragazzino. Era una passione profonda, che Fortunato non aveva mai abbandonato e che, anzi, era riuscito a trasformare nel suo lavoro. Un lavoro onesto e pulito. Perché lui era così, onesto e pulito. Un uomo perbene, un lavoratore scrupoloso, un padre attento e amorevole. Quando gli chiesero se avesse visto qualcosa o qualcuno attorno a quell’auto bruciata di fronte alla sua officina, per lui fu naturale rispondere di sì. Fu la sua condanna a morte, in una terra dove la legge dell’omertà non può essere infranta per nessuna ragione.
Fortunato Correale era di Locri, versante ionico della Calabria, in provincia di Reggio. Terra bellissima quella della Riviera dei Gelsomini, devastata però dalla presenza asfissiante della ‘ndrangheta. Una presenza fatta di affari sporchi, sopraffazione, violenza e morte. Qui era nato Nato - come amava chiamarlo sua moglie - nel 1951. Appena maggiorenne, la chiamata alle armi lo portò lontano da casa, a Bologna, dove restò qualche tempo, prima di tornare nella sua terra e coronare il sogno della sua vita: trasformare nel suo lavoro la passione per i motori. Aveva imparato i segreti del mestiere facendosi le ossa in qualche azienda meccanica e in qualche officina, fino alla decisione di mettersi in proprio e aprire la sua officina, in via Tevere. E qui, proprio di fronte all’officina, viveva Maria Teresa Adornato. I due si conobbero nel 1980. Lei era figlia di un carabiniere. Poco tempo dopo divenne sua moglie. Un matrimonio felice, da cui nacquero ben presto tre figli maschi: Domenico, Giuseppe e Claudio.
Fortunato amava circondarsi dei suoi bambini, portarli in officina, vederli rapiti che osservavano il loro papà alle prese con tubi, motori, arnesi. Una famiglia normale, serena, tranquilla. Nato era un papà molto attento ai bisogni dei suoi cari. E questo nonostante una vita piena di impegni e di passioni. Per arrotondare, ogni tanto guidava gli autobus per viaggi sulle lunghe distanze. Aveva viaggiato molto e gli piaceva farlo. Portava i suoi figli in gita, viaggiava anche per partecipare ai tanti raduni di auto d’epoca, dove spesso portava con sé la sua famiglia. Un’altra grande passione quella per le macchine d’epoca, che si divertiva a mettere a disposizione anche per matrimoni e cerimonie. E poi la campagna, con l’uliveto di famiglia alla cui cura si dedicava con grande attenzione. Insomma, una persona perbene, che era stata capace, con la fatica e il sudore della fronte, a mettere su una bella famiglia, di cui era profondamente orgoglioso. Come orgogliosi di lui erano - e ancora sono - sua moglie e i suoi figli.
La denuncia
Quello che accadde nel primo pomeriggio del 22 novembre 1995 fu una tragedia che sconvolse per sempre la serenità di questa famiglia. Un evento inatteso, inspiegabile, insensato.
Tutto ruota attorno all’auto di un brigadiere dell’Arma. Una Fiat Uno, che il carabiniere aveva parcheggiato proprio di fronte all’officina. Siamo a circa due mesi da quel maledetto 22 novembre. Quel giorno il militare si doveva sposare e Fortunato aveva messo a disposizione una delle sue auto d’epoca. Era salito in casa a farsi una doccia prima di mettersi alla guida. D’un tratto, alcuni rumori attirarono Nato e sua moglie alla finestra, giusto in tempo per vedere sfrecciare via una Fiat Punto bianca. Sotto casa, la Uno del brigadiere Antonio Scuderi era avvolta dalle fiamme. Non era la prima volta che accadeva in città, dove le minacce della ‘ndrangheta ai carabinieri passavano anche attraverso questo metodo: bruciare le auto private. Un segnale inequivocabile, a dire che dalle auto si poteva passare alle persone.
Quando i carabinieri convocarono Fortunato in caserma, per lui fu naturale raccontare quel poco che aveva visto. Eppure quel poco bastò perché qualcuno - che non è stato mai chiarito come avesse saputo della testimonianza di Fortunato - ne decretasse la morte.
Il periodo successivo a questo assurdo omicidio fu durissimo per la famiglia Correale. La morte di Fortunato fu nascosta ai bambini fino al giorno dei funerali. Poi dolore, paura, solitudine, isolamento. Maria Teresa fu costretta a trovare lavoro come donna delle pulizie, prima di essere assunta, cinque ani più tardi, in ospedale. Una donna forte e coraggiosa, che per amore dei suoi figli si è rimboccata le maniche, provando a proteggerli, accompagnandoli tutti al diploma, assicurandogli comunque un futuro il più possibile sereno.
Ma, nelle parole e nei ricordi dei suoi figli, le conseguenze di quel dolore per quella morte assurda non sono mai andate davvero via.
Quando incontro una persona anche lei vittima di mafia come me, io la riconosco subito dagli occhi. Sono occhi che hanno visto la propria infanzia finire presto e che quando guardano una cosa bella prima cercano di capire se dietro tutta quella bellezza si nasconda qualcosa. Non riesci più a vivere una felicità completa, non riesci più ad abbandonarti a un momento di gioia, perché ti aspetti l’agguato, l’imprevisto che ti porta via tutto.
L’incontro con Libera arrivò qualche anno dopo l’omicidio, grazie all’allora Vescovo di Locri Monsignor Giancarlo Bregantini, che organizzò l’incontro della famiglia Correale con don Luigi Ciotti. Grazie anche a quell’incontro, all’impegno di Mons. Bregantini ma soprattutto alla forza e al coraggio della sua famiglia, la memoria di Fortunato non si è mai eclissata.
Il 22 novembre del 1995
Il 22 novembre Fortunato aveva da poco riaperto la rimessa dopo la pausa pranzo. Con lui, a poca distanza, c’era sua moglie, che raccoglieva alcune olive. Fu un attimo. Maria Teresa, intenta a lavorare, non si accorse di nulla. Scambiò il rumore dei sette proiettili esplosi per petardi. Vide suo marito disteso a terra, senza alcuna traccia di sangue. Pensò a un malore, allertò i vicini, chiese loro di accompagnarla in ospedale. Ma in ospedale Fortunato non ci arrivò vivo. Morì con il fegato spappolato da una pallottola, senza forse avere neanche il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo. Aveva 44 anni. Sua moglie 35 e il suo ultimo figlio appena 5.
Vicenda giudiziaria
Le indagini non portarono a nulla. Per l’agguato fu arrestato Salvatore Dieni, 24 anni, nipote del boss Cosimo Cordì. Si diede alla fuga invece un’altra persona, Domenico Caminiti. Sugli abiti dei due, furono rinvenute tracce di polvere da sparo. Un indizio però non ritenuto sufficiente a incastrare i due. Le accuse caddero in sede processuale. Per la morte di Fortunato non c’è mai stata verità e giustizia.
Memoria viva
Il nome di Fortunato è ricordato, insieme alle oltre 1000 vittime innocenti delle mafie che ogni anno in occasione del 21 marzo, la Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, riecheggiano in tanti luoghi. Per noi Fortunato ha un vero e proprio diritto al ricordo, un diritto che restituisce “dignità” a ogni nome che ricordiamo, che rappresenta la promessa a Fortunato che non dimenticheremo la sua storia, i suoi progetti di vita, portando con noi i suoi sogni e rendendoli vitale pungolo del nostro impegno quotidiano.
All’epoca dei fatti ero da sola con mia madre e i bambini. Ma ho fatto di tutto per farli camminare sulla retta via i miei ragazzi. Il Signore mi ha dato la forza di andare avanti a testa alta, nella legalità. I miei figli non mi hanno mai dato pensieri. Loro erano molto affezionati al padre, erano sempre con lui in officina, ma nonostante il trauma che hanno subito, sono sereni, capaci ancora di vedere un futuro.