19 gennaio 1995
Teverola (CE)

Genovese Pagliuca

A 20 anni ci si sente felici quando si è innamorati, si ha un lavoro e si può iniziare a progettare il sogno di costruire una famiglia con la persona che amiamo. E così doveva sentirsi Genovese, prima che la sua vita e quella della donna che amava fossero travolte in un vortice inaudito di violenze da parte del clan dei casalesi. Ucciso a soli 24 anni perché non ha voluto piegarsi.

A leggerla o sentirla raccontare, senza riferimenti temporali, questa storia sembra ambientata nel Medioevo, al tempo dei signorotti che avevano il potere di disporre delle donne come di una loro qualsiasi proprietà. E di decidere della vita e della morte di chi si ribellava, di chi diceva no, di chi quelle donne voleva proteggerle e liberarle. E invece quella di Genovese Pagliuca è una storia del nostro tempo, tragica e assurda, vissuta in una città della provincia di Caserta nell’arco di un anno e  mezzo, tra l’estate del 1993 e il gennaio del 1995. Un tempo presente, che però sa ancora tanto di Medioevo. 

Genovese era un ragazzo semplice. Viveva con la sua famiglia a Teverola, un paesone di poco meno di 15 mila abitanti in provincia di Caserta, nel cuore dell'Agro aversano. Era un ragazzo perbene, un lavoratore onesto. Faceva il macellaio Genovese e, nella sua semplicità, coltivava il sogno di farsi una famiglia, una casa, una vita dignitosa e serena. Un sogno che aveva cominciato a vedere sempre più concreto da quando aveva conosciuto Carla. I due erano coetanei. Lei faceva la parrucchiera a domicilio e, come Genovese, lavorava per mettere da parte quel giusto che le avrebbe consentito di sposare il suo fidanzato e di mettere su famiglia. Una storia come tante altre, dove l’amore resiste alle difficoltà e diventa stimolo a non arrendersi, a combattere, a faticare pur di vedere realizzati i propri sogni. E molto probabilmente ce l’avrebbero fatta questi due ragazzi di 24 anni a coronare i loro sogni e a realizzare i loro desideri, se solo la camorra, con la sua cultura di violenza e di sopraffazione, non avesse casualmente incrociato il loro cammino. 

In questa storia, questa cultura di morte ha il nome e cognome di un’altra donna: Angela Barra. Non era una qualunque a Teverola, anzi. In città sapevano tutti chi fosse e quanto potere avesse. Era l’amante di Francesco Bidognetti, potente boss del clan dei casalesi, considerato il braccio destro di Francesco Schiavone. Lei, Angela, era diventata un punto di riferimento per l’organizzazione nel territorio di Teverola, con un ruolo riconosciuto e importante di cura delle alleanze politiche ed economiche del clan. Angela aveva già 4 o 5 figli quando, nell’estate del 1993, conobbe Carla. E fu l’inizio di questo incubo. 

Il sequestro di Carla

Angela Barra aveva notato questa ragazza giovane, avvenente e forse un po’ ingenua e se n’era invaghita. Pianificò tutto nei minimi dettagli: quella ragazza primo o poi sarebbe stata sua. Iniziò ad avvicinarla, a mostrarsi cortese e disponibile, a farle capire che di lei si poteva fidare, che l’avrebbe aiutata a emanciparsi, a lavorare, a coronare il suo sogno d’amore con Genovese. Carla cadde nella trappola e le due donne divennero amiche. Il punto di non ritorno fu il momento nel quale Carla, lasciata la sua casa dopo un litigio con la famiglia e senza sapere dove andare, pensò di bussare alla porta di Angela, offrendole su un piatto d’argento l’occasione che aspettava. Naturalmente la donna accolse in casa la ragazza. Da quel giorno del settembre 1993 la vita di Carla divenne un inferno. Col passare del tempo le attenzioni di Angela nei suoi confronti si fecero sempre più insistenti. La donna fece in modo di allontanare i due innamorati, nonostante Genovese tentasse in ogni modo di avere contatti con la sua fidanzata. Fino alla decisione estrema, nel dicembre dello stesso anno, di mettere in atto un vero e proprio sequestro. Angela si rivolse a suo fratello Carmine e a un amico di questo, Luigi De Vito, perché la aiutassero nel trasferimento di Carla in un’altra abitazione, nelle campagne di Aversa. Era un vero e proprio bunker, con tanto di pareti insonorizzate e porte e finestre blindate. Ed è in questa casa che si consuma, irrefrenabile, la violenza. La povera ragazza, ormai prigioniera, era tenuta costantemente sotto l’effetto dei sedativi e, intanto, veniva abusata e violentata da Angela e dai suoi due complici. Una violenza inaudita dalla quale Carla riuscì a fuggire, cogliendo un’occasione propizia, solo nel mese di gennaio del 1994. Corse a casa dei suoi, riabbracciò Genovese, raccontò tutto quello che aveva dovuto subire. 
Ma i due giovani, forse spinti anche dalla preoccupazione delle loro famiglie, decisero di provare a dimenticare e ad andare avanti. Lei però, la ragazza, avrebbe dovuto allontanarsi da Teverola. Genovese invece restò in città, a fare il suo lavoro, convinto davvero che Angela ci avrebbe messo una pietra sopra. Ma non fu così. 

Il 19 gennaio del 1995

La rabbia di Angela, infatti, furibonda per la fuga della ragazza e il suo allontanamento dal paese, si riversò su Genovese. Così come la sua vendetta. Cominciarono le minacce, le intimidazioni, le aggressioni. Quasi quotidianamente Genovese rientrava a casa con i segni delle percosse, provando in ogni modo a nasconderne le ragioni per non dare preoccupazione ai suoi genitori. Fino a quel tragico giovedì 19 gennaio 1995. Quel giorno Genovese era stato, come spesso accadeva, a casa dei suoi zii per rientrare dalla sua famiglia solo nel tardo pomeriggio. Si era intrattenuto con i suoi cari, più affettuoso del solito. “Vado a fare un giro in piazzetta e quando torno ceniamo”, disse. E uscì di casa. Non vi tornò mai più. Poco più tardi il suo corpo senza vita fu ritrovato, tremendamente sfigurato, in una macchina ferma in via Roma, a pochi metri dalla gelateria gestita proprio da Angela Barra. Lo avevano massacrato in due, a colpi di pistola e lupara, senza nessuna pietà. A 24 anni. 

Vicenda giudiziaria

La notizia della barbara uccisione del suo fidanzato convinse Carla che non poteva tacere oltre. Così la ragazza si presentò dai Carabinieri per raccontare tutto. Le sue dichiarazioni portarono, due mesi più tardi, all’arresto di Angela Barra e degli altri due carcerieri, suo fratello Carmine di 32 anni e il suo complice Luigi De Vita, appena ventenne. La ragazza fu trasferita in una località protetta. Nel 2009 poi una sentenza divenuta definitiva ha condannato all’ergastolo Aniello Bidognetti, figlio di Francesco, e Giuseppe Setola, sanguinario braccio destro del capoclan, individuati dagli inquirenti come esecutori materiali del delitto. Ma per la famiglia Pagliuca al dolore doveva aggiungersi altro dolore. Un’informativa dei Carabinieri aveva in un primo momento accostato Genovese ad ambienti malavitosi, inducendo il Ministero dell’Interno a non riconoscere al giovane lo status di vittima innocente della criminalità. E questo neanche dopo la ricostruzione dettagliata dell’accaduto e la  sentenza definitiva del 2009. Solo nel marzo del 2018, una  nuova sentenza, emessa da un giudice civile, ha riconosciuto l’errore commesso, condannando il Ministero a riconoscere lo status di innocenza a Genovese. Ma l’Avvocatura dello Stato si è opposta, presentando ricorso, revocando il riconoscimento e sostenendo che l'omicidio del giovane era maturato da quello che è stato definito un "atteggiamento provocatorio" di Pagliuca nei confronti di Angela Barra. 

Memoria viva

Tuttavia questa storia tremenda non è stata dimenticata. Col tempo, quella del giovane macellaio di Teverola, ucciso a 24 anni senza pietà dal clan dei casalesi, è diventata una memoria viva, in grado di sostenere, per come possibile, il dolore e lo sforzo di testimonianza della sua famiglia. Libera, il Comitato don Peppe Diana e tante realtà sociali del territorio si sono fatte carico di recuperare la dignità della storia e della vita di Genovese, la sua innocenza, il suo coraggio, accanto a mamma Lucia e alla sorella Giovanna. Nel 2016 un megalite con il volto scolpito di Genovese è stato installato sul luogo dell’omicidio. Accanto, qualche anno dopo, è stato piantato anche un albero di ulivo. Nell’ottobre del 2017 è nato, in provincia di Pisa, il Presidio di Libera del Comprensorio del cuoio e della calzatura, intitolato proprio a Genovese Pagliuca. Nel suo nome, si continuano a costruire ogni giorno percorsi di impegno e di giustizia. 

Ancora oggi mi sembra tutto così assurdo. Assurdo che mio fratello sia stato ucciso per un dispetto, una gelosia insana. Assurdo che gli amici che sapevano tutto non abbiano fatto nulla all'epoca e ancor di meno oggi per ricordarlo. Assurdo che il Governo non lo ritenga una vittima innocente della camorra e tanto altro ancora. La mia forza è alimentata dal desiderio di rendere a Genovese tutto il bene che ha fatto nella sua breve vita. Un affetto che nel momento in cui è venuto a mancare ha tolto la gioia dai volti dei miei genitori che si sono chiusi nel loro dolore. Il riscatto sociale è iniziato dopo tanto tempo, quando Alessandra Tommasini, responsabile della memoria per il coordinamento provinciale casertano di Libera, mi fece visita nel mio vecchio negozio di abbigliamento presentandomi Valerio Taglione, del Comitato Don Diana. Grazie ai loro insegnamenti, al sostegno e aiuto di ogni genere, ho capito come far sì che Genovese non venga dimenticato. Studiando e credendo nei principi morali i ragazzi potranno realizzare ogni loro obiettivo senza cedere all'inganno dei soldi facili.
Giovanna - sorella di Genovese